Crisi aziendali. Senza l’intervento dello Stato non c’è soluzione, che lo voglia o no Bruxelles
Di fronte all’aumento delle crisi aziendali, dall’industria alla distribuzione, il Governo continua a rilanciare proclami senza mettere in campo l’unica soluzione concreta: intervento pubblico e statale a garanzia dell’occupazione, del reddito e dello sviluppo economico.
Dalle ultime vicende che riguardano la FCA (ex Fiat), l’ex ILVA/ArcelorMittal, Whirlpool (ex Indesit), TIM, Alitalia ma anche imprese come Mercatone UNO, diventa evidente che ci troviamo dentro una ulteriore fase di declino e di predazione da parte delle multinazionali.
Di fronte a fallimenti, chiusure e delocalizzazioni, mancati piani di rilancio, riduzioni di personale e cassa integrazione in aumento esponenziale, il Governo segue la “tradizione” dei suoi predecessori, affrontando caso per caso le varie vertenze ma senza dimostrare di avere una strategia complessiva per poter invertire la situazione. Continuano ad accumularsi tavoli di crisi su tavoli di crisi, annunci su annunci ma un piano vero e proprio di intervento nazionale non viene individuato.
La ragione è che il punto di partenza per una vera inversione di tendenza è ancora un tabù, sia per il Governo, sia per le opposizioni in Parlamento: intervento diretto dello Stato e del settore pubblico nell’economia e nella politica industriale.
Un tabù imposto da decenni di politiche liberiste, dove l’intervento dello Stato è inteso solo come attore e garante per la demolizione delle precedenti regole e norme (sul lavoro, sulla finanza, sulla produzione), per sostenere con soldi pubblici i processi di ristrutturazione e privatizzazione e per foraggiare in mille maniere profitti privati con risorse pubbliche.
Un tabù imposto non solo a livello nazionale ma soprattutto sul piano internazionale dalla stessa Unione Europea, dove però le regole non sono vincolanti per tutti come nel caso di Francia e Germania: dove l’intervento economico e politico dello Stato è molto evidente e si consolida. Il caso dell’accordo mancato FCA e Renault è solo l’ennesima conferma ma possiamo anche ricordare la vicenda Fincantieri per l’operazione Stx.
Per capire di cosa stiamo parlando, basterebbe contare i miliardi di euro di fondi pubblici erogati ai privati negli ultimi 10 anni a sostegno delle campagne di licenziamento e di vari incentivi concessi ai piani industriali, la gran parte dei quali risultati fallimentari (vedi solo i casi eclatanti Alitalia-Cai e Sai, Whirlpool e l’ultima evoluzione di ArcelorMittal)
Così come potrebbe aiutare a comprendere la diversità d’approccio sapere quante e quali partecipazioni in industrie nazionali hanno nel portafoglio lo stato francese o tedesco anche attraverso le loro articolazioni.
Per noi non si tratta di difendere il padronato italiano contro il padronato europeo, francese o tedesco ma di capire e reagire ad un processo di devastazione del tessuto economico italiano dove a perderci sono le lavoratrici e lavoratori e le prospettive di un possibile sviluppo eco-sociosostenibile nel nostro territorio.
Un padronato italiano che ragiona in una logica parassitaria e ha puntato tutto sullo sfruttamento del lavoro, che spinge sulla deregolamentazione, che si avvantaggia con la rendita di posizione, che esige il sostegno diretto o sfrutta il silenzio/assenso dello Stato per far galleggiare una economia “privata” finalizzata ai soli dividendi azionari.
Un’impostazione che divora risorse pubbliche e non si preoccupa dei disastri ambientali. L’esatto contrario di quello che oggi occorre per lo sviluppo degli investimenti, della ricerca e l’innovazione tecnologica per la soddisfazione degli interessi generali mettendo al centro il tema dello sviluppo sostenibile e della cura dell’ambiente.
Sappiamo che questa crisi e i relativi processi di ristrutturazione e di distruzione non sono un evento che riguarda solo il nostro paese ma la stessa “globalizzazione”, con l’aumento della competizione internazionale, fino alle guerre commerciali in atto tra USA, UE, Russia e Cina.
In questo contesto generale è sempre più evidente che il nostro paese è preda e terra di conquista dei settori strategici da parte delle multinazionali, che non trovano nessuna resistenza politica sia da parte dei governi precedenti ma neppure dall’attuale governo giallo verde. Una economia lasciata coscientemente alla deriva e concentrata sui settori secondari del “Made in Italy”.
L’unica eccezione, a dimostrazione delle nostre posizioni, sono le grandi aziende italiane sopravvissute alla stagione delle privatizzazioni e dello smantellamento dell’IRI avviato dai governi dei primi anni 90: stiamo parlando delle aziende a partecipazione pubblica come ENI, SAIPEM, ENEL, LEONARDO (ex FINMECCANICA) e FINCANTIERI, che operano in settori strategici con investimenti importanti in termini di innovazione e sviluppo, a differenza delle aziende “sorelle” ex IRI privatizzate, smantellate e cannibalizzate.
Quindi, se teniamo conto degli effetti dell’abbandono di qualsiasi politica industriale nel nostro Paese e consideriamo le ingenti somme pubbliche erogate dietro richiesta di imprenditori privati senza alcun ritorno positivo in termini sociali, non può più essere tabù parlare del bisogno di una nuova fase di ricostruzione industriale e dello strumento necessario come una nuova IRI.
Perché se da una parte è normale che il padronato e le multinazionali operino nel loro esclusivo interesse in termini di profitto e di speculazioni finanziarie, dall’altra non può più essere accettabile che tutto questo avvenga senza mettere in campo tutti gli strumenti politici ed economici che la stessa nostra Costituzione mette a disposizione dello Stato e dell’interesse generale.
Ma il punto centrale è se c’è la volontà politica di rompere con le politiche liberiste e se c’è la volontà di rompere con i vincoli della stessa Unione Europea che vieta ad alcuni e permette ad altri l’intervento diretto della Stato nell’economia.
Finora sia i vari Governi, sia CGIL CISL UIL sono state parti attrici se non in alcuni casi complici veri e propri della destrutturazione industriale del Paese, limitandosi ad abbaiare senza mordere, e senza, senza dare un orizzonte diverso al quadro di insieme, uniti quando va bene dalla logica della sola riduzione del danno.
Se si accettano le gabbie è difficile ragionare diversamente.
Per questo, USB ritiene sia giunto il momento di rimettere in agenda lo studio dell’intervento pubblico nella politica industriale in Italia e degli strumenti necessari per farlo.
Lo ribadiamo come abbiamo fatto con la manifestazione nazionale del 20 ottobre 2018 a Roma e con gli scioperi generali di categoria delle scorse settimane: non esistono soluzioni alternative, la nazionalizzazione, la ripubblicizzazione delle aziende strategiche, delle aziende in crisi, di quelle che si vogliono delocalizzare è il punto di partenza per una nuova stagione industriale e produttiva, per l’occupazione e per i diritti di tutte e tutti.
USB Nazionale
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