Caro Galli, un treno di luoghi comuni
COMMENTO – Ugo Mattei da IL MANIFESTO del 29 febbraio 2012
Mentre un giovane uomo agonizza fra la vita e la morte in una camera di ospedale, né i lavori fasulli volti ad ingannare l’Europa né il dispositivo mediatico volto ad ingannare il paese hanno il buon gusto di arrestarsi almeno per un po’ a riflettere. Il buon senso indica dove stia la responsabilità per la caduta di Luca Abbà. Da una parte duemila agenti armati ed equipaggiati di tutto punto, pronti ad ogni violenza di Stato pur di imporre il dispositivo della legalità illegale, che occupano manu militari, al di fuori da qualunque ritualità giuridica ed ordine costituzionale, ingenti appezzamenti di proprietà privata e comune. Dall’altra, non più di una ventina di coraggiosi militanti No Tav che gli apparati repressivi dello Stato volevano, ancora una volta, schedare ed umiliare, come già avvenuto a Torino in stazione sabato sera. Sabato sera gli apparati repressivi dovevano offrire a quelli mediatici qualche immagine di scontro dopo il bellissimo corteo Bussoleno-Susa ed è per questo che hanno impedito a chi voleva semplicemente scendere da un treno di farlo liberamente, costruendo un pretesto per cariche del tutto gratuite.
Che cosa volevano offrire lunedì mattina gli apparati repressivi a quelli mediatici? Forse solo un inseguimento assurdo, condotto da un rambo da strapazzo, vittima a sua volta di quell’ideologia poliziesca che in questo paese post-fascista porta il capo della polizia a guadagnare il doppio del presidente Obama e quasi dieci volte il suo omologo francese! La caduta di Luca Abbà, “evento” effettivamente offerto al carrozzone mediatico, per un giurista va considerato quanto meno causato da una “condotta” posta in essere con “dolo eventuale”. L’esito potenzialmente infausto se non direttamente voluto è stato (e da molto tempo) certamente accettato, forse da qualcuno perfino desiderato, per poter accusare i cattivi maestri (così ha fatto l’ex Fronte della Gioventù e oggi deputato Pdl Agostino Ghiglia) o per continuare a descrivere con tono tetro un movimento che dalla pratica del No Tav come bene comune trae invece alta legittimazione di popolo per un modello di sviluppo nuovamente sintonico con la nostra Costituzione, nata appunto dalla Resistenza.
Tuttavia, me lo si lasci dire senza alcuna superbia accademica, Ghiglia non è un mio “pari” mentre purtroppo lo è Carlo Galli che su Repubblica pubblica un fondo che ho dovuto leggere due volte, incredulo che un maestro che ho sempre ammirato potesse far da grancassa per un tale insieme di banalità, luoghi comuni (termine che utilizzo qui nella invalsa accezione negativa) e falsità (riprodotte nelle schede offerte in altra parte dello stesso giornale). Secondo l’autorevole politologo, il governo tecnico dovrebbe proprio ora indossare i panni della politica per dire chiaramente ad un popolo disorientato che “indietro non si torna!” rispetto a decisioni prese in sede parlamentare e di trattati internazionali. Indietro non si torna, in particolare, per non ledere la dignità d’Italia rispetto all’Europa che, generosamente, finanzierebbe l’opera. Siamo al giolittiano “ca custa lon ca custa” (in piemontese, parlato anche in Val Susa: costi tutto ciò che deve costare, inclusi i caduti) inciso sulla ferrovia Asmara-Massaua da un Italia coloniale che appunto non doveva perdere la faccia con le potenze rivali nella corsa al saccheggio dell’ Africa!
Chi a differenza di Galli conosce la questione da vicino anche dal punto di vista giuridico potrà forse ammettere l’esistenza di tale volontà Parlamentare mentre semplicemente non è vero che esistano due «trattati internazionali» che ci vincolerebbero al Tav. L’ultimo accordo sottoscritto con la Francia un paio di settimane orsono non solo singolarmente dichiara al primo articolo di non essere un protocollo di intesa. I civilisti direbbero che non è neppure un “contratto preliminare” ma una mera “puntuazione”, priva di valore vincolante e comunque in attesa di ratifica parlamentare. Se è vero che soltanto i cretini non cambiano mai idea sarebbe forse il caso che la “politica” invocata da Galli riflettesse sul fatto che la “decisione” fu “presa” oltre vent’anni fa in un momento nel quale sicuramente le condizioni economiche erano meno drammatiche di adesso ed in cui soprattutto si ignoravano ancora interamente gli immensi costi economici, politici umani e sociali che tale grande opera inutile avrebbe inflitto alla società, non certo soltanto Valsusina, ma italiana tutta.
La verità è che, come avviene sempre nei casi delle grandi opere che espongono la collettività a spese e rischi ingenti, una scelta politica ponderata avviene in modo graduale, adattandosi alle contingenze che variano nel tempo. La buona politica, quella che non si pone al soldo degli interessi ingentissimi che le grandi opere generano, accompagna le scelte nel corso di questi lunghi processi, registrando con umiltà e rispetto le nuove conoscenze acquisite. Accusare cripticamente il movimento No Tav di leghismo, non dire che le grandi opere generano comparativamente assai pochi posti di lavoro, utilizzare un linguaggio ambiguo sui costi, facendo intendere che il grosso dello sforzo lo farà l’Europa, tacere delle illegalità create cambiando il progetto in corso senza addivenire a nuove gare d’appalto, costituisce una strategia argomentativa che ha come unico scopo l’appoggio ad un’ideologia dominante già fin troppo letale. Il popolo che si è raccolto intorno al movimento No Tav è quello dei beni comuni, che vuole ridiscutere alla luce di questa alternativa di sistema sul se e non soltanto sul come di ogni grande opera che si vuole intraprendere. Galli, che cita la Grecia, dovrebbe sapere che la trappola del debito scatta proprio inducendo gli Stati a grandi spese insostenibili, costruendo dolosamente come decisioni già prese progetti di cui occorre discutere a fondo, soprattutto dato il mutare delle circostanze. La Tav non è stata mai decisa definitivamente né dalla Francia né dall’Italia né dall’Europa. Non è questione di democrazia. Non è onesto né degno di uno studioso della fama di Galli, occultare questa realtà, scomoda soltanto per gli affaristi e gli apparati mediatici che da anni li sostengono.