2016: l’anno che verra’
L’anno appena iniziato porta con se un tale cumulo di deflagranti contraddizioni, sia sul piano nazionale che su quello internazionale, che fanno prevedere una situazione, se possibile, ancor più grave dell’attuale. Conclusi i festeggiamenti di capodanno, se così si possono chiamare, per la condizione di stato di assedio in cui si sono svolti, il volto brutale della realtà si affaccia di nuovo nella nostra vita quotidiana.
La guerra generalizzata ormai regola le relazioni internazionali e diventa sempre più difficile il controllo da parte degli stati e dei poteri che si confrontano sul mercato globale. Venticinque anni di guerra al terrorismo, non hanno portato alcun risultato concreto e al contrario hanno alimentato la tensione internazionale, perché l’obiettivo reale e non dichiarato è utilizzare il terrorismo nello scacchiere internazionale piuttosto che eliminarne le cause.
Tanto è vero che mentre si vive in stato d’assedio contro un impalpabile nemico comune, in nome dell’unità nazionale nei singoli paesi si instaura uno stato di guerra interna che distrugge vita democratica e relazioni sociali.
E allora l’opposizione alla guerra diventa oggi una condizione irrinunciabile per la riconquista delle libertà di associazione, di manifestazione, di opposizione sociale. Dietro la copertura del nemico alle porte continuano massicci i processi di ristrutturazione del modello sociale che abbiamo conosciuto sino ad ora e l’attacco allo stato sociale è ormai strutturale e veicolato come ineluttabile.
Così le pensioni diventano un miraggio per chi lavora e presto anche per chi le ha faticosamente maturate. Lo “scalone” per la pensione delle donne che ne porta l’età pensionabile a più 22 mesi in un sol colpo dimostra tutta la ferocia di un governo di avventurieri e di fedeli esecutori di ordini che arrivano dall’Unione Europea, dalla BCE, dal Fondo Monetario internazionale e dai vari potentati internazionali economici e finanziari.
L’accesso alla sanità è sempre più simile ad una lotteria e i futuri piani di rientro, prima aziendali e poi di presidio, faranno carne da macello delle strutture ancora in vita.
La scuola è sempre più abbandonata a se stessa con l’obiettivo di allontanare dalle aule settori crescenti di popolazione giovanile: proposito questo sostenuto anche dal nuovo messaggio “studiare non serve “.
Il mondo del lavoro subisce lo strapotere delle imprese che ormai hanno mano libera su diritti e garanzie e dopo aver affossato il valore solidaristico del contratto nazionale con la collaborazione di Cgil, Cisl e Uil, tornano all’attacco con il “welfare aziendale” come elemento strutturale della contrattazione decentrata. Un “welfare” che prelude alla definitiva distruzione di quello pubblico introducendo nuove e pesanti privatizzazioni e un modello simile a quello delle mutue di un tempo.
La pubblica amministrazione langue sotto i colpi di controriforme che ne annullano funzioni e servizi sottoponendo i dipendenti pubblici a condizioni salariali e di vita sempre più insopportabili.
Se il lavoro, la pubblica amministrazione, la salute, la scuola e l’intero stato sociale sono saccheggiati e deturpati, non meno colpite sono le istituzioni che vengono modificate strutturalmente per definire, favorire ed accompagnare un potere centrale sempre più autoritario e autoreferenziale, distruggendo non solo quella residua democrazia sostanziale sopravvissuta a decenni di malgoverno e di politiche asservite agli interessi di pochi, ma anche quella democrazia formale disegnata nel dopoguerra e frutto soprattutto della lotta al fascismo.
In questo quadro devastato e devastante le responsabilità di Cgil, Cisl e Uil e dell’intero schieramento sindacale “complice” non sono certo marginali.
Il nostro ruolo, il ruolo di USB, di un sindacato indipendente, conflittuale, che si rivolge all’intera classe lavoratrice, che vive e opera sui posti di lavoro e nei territori, non può essere di pura testimonianza ma deve riaffermare protagonismo sociale e capacità di iniziativa.
Le scelte minoritarie, spesso ottusamente ideologizzate, sono un elemento di debolezza strutturale che impedisce non solo di individuare chiaramente i problemi, ma anche di cogliere le opportunità che la condizione reale ci offre.
Il sindacato di classe si costruisce interpretando le esigenze della classe e dandole ruolo sociale e funzione strategica per un modello di sviluppo alternativo. Questo è quello che stiamo facendo giorno dopo giorno.
USB Nazionale
Fonte : www.usb.it
UN RICORDO DI IVAN DELLA MEA A 20 ANNI DALL’ULTIMO INCONTRO
(Gianni Sartori)
Ivan Della Mea era nato il 16 ottobre 1940. Se ne è andato il 14 giugno del 2009: un vuoto incolmabile.
Per quasi 50 anni le sue canzoni di lotta e di malinconia, le sue parole di coraggio, il suo modo di essere “compagno”, sono stati un esempio per migliaia di militanti, giovani e non. Ha fatto musica e poesia contro la società dei consumi, ha manifestato contro l’oppressione, si è battuto per una libertà insieme anarchica e comunista, da autentico rivoluzionario. Questo era (è) Ivan Della Mea, un compagno che anche da “vecchio” conservava lo spirito combattente di un ragazzo, un artista irriducibile: “Con gli oppressi contro gli oppressori. Sempre!”.
Lo avevo già incontrato negli anni settanta in un paio di occasioni ma solo l’ultima volta, nel 1995, mi ero deciso a intervistarlo. L’occasione era stata la “Festa RAP” (nel senso di “Rossa, Antifascista, Proletaria”) organizzata a Vicenza dal “Collettivo SPARTAKUS”, da Rifondazione Comunista e dalla Lega per i diritti e la liberazione dei popoli (di cui all’epoca, per quanto indegnamente, ero il responsabile per Vicenza) con la collaborazione di alcuni Centri sociali e gruppi vicentini (“Stella Rossa” di Bassano, “Alter-media” di Schio, “La tienda”, il Collettivo Cà Balbi, gli anarchici bassanesi del “Pisacane”….). Una risposta alla squallida manifestazione di qualche mese prima, nel 1994, dei gruppi neonazisti che avevano letteralmente invaso la città del Palladio, medaglia d’oro per la Resistenza. Ancora non lo sapevo ma, rinviando di continuo per un altro “aggiornamento” sulla sua militanza cantata, non lo avrei più rivisto. Recentemente ho ritrovato gli appunti di quella lunga intervista-conversazione e mi è parso giusto riproporla per ricordare Ivan e le sue canzoni.
NERONE
Nerone era un cane che per anni era stato legato alla catena, in un deposito dalla parte dei Navigli, a far la guardia. Divenuto vecchio venne slegato, portato altrove e abbandonato, come da manuale.
La sua condizione passò “da quella di schiavo a quella di liberto affamato”. Ritornò nei paraggi, lì dove aveva trascorso tutta la sua vita, cercando una qualche convivenza, un rapporto con gli umani, una mediazione tra una carezza, un tozzo di pane e tante pedate.
Una sera nei pressi del vecchio capannone alcuni giovani avevano acceso un fuoco ed erano intenti a “farsi” di eroina. Nerone, afflitto da cronica solitudine, si avvicinò per fare amicizia ma qualcuno, già sotto l’effetto della droga, gli sparò un colpo di pistola in testa.
Il giorno dopo toccò proprio a Ivan e al figlio ritrovare il cadavere della povera bestia. Ivan ne riportò un’emozione fortissima anche per la disperazione del bambino. E nacque così la canzone per questo cane “morto in guerra”, vittima inconsapevole dei mille egoismi e miserie di un mondo imperniato sull’usa e getta, tanto per degli umani che delle bestie.
Era una delle tante storie che Ivan Della Mea raccontava, accompagnato dalla sua chitarra: una canzone in cui riversava la sua profonda umanità, il suo rifiuto di restarsene indifferente di fronte alle tante ingiustizie del mondo, grandi o piccole che siano. Tra l’altro questa non è l’unica sua canzone “animalista” ante litteram (o meglio: “antispecista). Ricordate “El me Gatt”? Ivan evidentemente è sempre stato un uomo incapace di girarsi dall’altra parte, uno che sentiva veramente sulla propria pelle lo schiaffo dato a chiunque in qualsiasi parte del mondo (citazione guevarista, ovviamente). Roba d’altri tempi.
VALE LA PENA
Va anche detto, purtroppo, che riascoltandolo oggi la malinconia rischia di essere il sentimento prevalente. Le sue canzoni legate spesso ai numerosi lutti del proletariato (dall’Ardizzone a Che Guevara, da Ciriaco Saldutto a Franco Serantini, da Avola a Marcinelle), ascoltate 40 e passa anni fa alimentavano quella “rabbia antica” che oggi come oggi rischia di apparire un reperto, un fossile o addirittura un “sentimento da zombies” come mi ha poco gentilmente fatto osservare un ex compagno, all’epoca operaista, oggi rassegnato.
Eppure credo valga ancora la pena di ascoltarlo. Non solo perché molte sue canzoni fanno ormai parte della storia delle lotte proletarie, ma anche per la profonda umanità che le pervade, testimonianza sofferta di un modo diverso di concepire i rapporti umani rispetto all’ideologia dominante.*
L’UOMO BIANCO
La vera e propria mutazione antropologica avvenuta negli ultimi decenni (e che ha contaminato anche buona parte delle classi subalterne) era stata prevista e temuta da Della Mea in epoca non sospetta: quasi avesse avuto una premonizione.
Era stato lui stesso a dirmelo:
“Quando cantavo Io so che un giorno in fondo non credevo all’esistenza dell’”Uomo bianco vestito di bianco” che ossessionava quel mio carissimo amico poi finito al manicomio. Pensavo che a me non sarebbe mai capitato di vederlo e adesso invece lo vedo anch’io, quasi ogni giorno, in televisione”. Ricordo che l’incontro risale al 1995 e penso sia inutile precisare a chi si riferisse il buon Ivan.
D. Usi ancora il vecchio repertorio nei concerti? Mi riferisco ai tuoi lavori degli anni sessanta, da “Ballata della piccola e grande violenza” a “Forza Gioan l’dea non è morta” (noto anche come “Il rosso è diventato giallo”)?
R. Suono spesso canzoni come “Ieri mio padre è morto” o “El me gatt” che venne definita da Roberto Leydi una canzone anarcosindacalista a tutti gli effetti. Posso anche essere d’accordo con l’”anarco” ma non sono mai riuscito a capire il perché del “sindacalista”…Ho invece qualche difficoltà a suonare “Il rosso è diventato giallo”, ma solo per motivi tecnici, non politici. Nel disco molti pezzi venivano suonati da Paolo Ciarchi (della Comune), molto più bravo di me con la chitarra. Ho recuperato anche “A questo punto il prezzo qual’è” (famosa per aver ripreso lo slogan delle Pantere Nere “brucia, ragazzo, brucia” ndr), aggiornandola e aggiustandola un po’. Nel testo originario c’erano forse delle forzature a scapito di quel povero cristo di Cesare Pavese. Purtroppo devo riconoscere che Avola, Battipaglia, Soriano Ceccanti, Marighela, Inti Peredo…(tutti citati nella canzone ndr) ormai alla maggior parte delle persone, soprattutto dei giovani, non dicono più niente. L’unico che conoscono è Guevara (e dopo altri 20 anni la situazione non è certo migliorata ndr).
CHI ERA GIOAN?
D. Meglio che niente con questi chiari di luna. A proposito, pecco anch’io di ignoranza e avrei qualche curiosità: chi era “Gioan” a cui spesso ti rivolgi? E chi era Costante, altra figura ricorrente nelle tue canzoni?
R. “Gioan” era Gianni Bosio. Costante era un contadino di Torrealta di Ponte del Giglio, in provincia di Lucca. Era un personaggio di grandi, diffusi, minuti saperi; la negazione di ogni esasperazione ideologica. Un uomo legato alla terra, al ciclo delle stagioni, al lavoro dei campi. Aveva una profonda, intima conoscenza di piante e animali, con una visione del mondo che evocava una sorta di mondo magico rurale. Noi viviamo in un mondo dove si parte dall’idea di uomo universale per poi scendere al concreto, al particolare. Nel mondo contadino avveniva il contrario, senza peraltro porsi il problema dell’universale.
Costante non era antifascista, almeno non in maniera consapevole, dichiarata. Però quando due suoi compaesani discesi in città e divenuti fascisti, vennero in divisa a casa sua per dirgli che stavano organizzando i giovani della zona, non fece altro che entrare in casa e, senza dire una parola, uscire con il fucile spianato. I due non si fecero più vedere.
D. Mi pare che ti riferissi a lui, a Costante, anche nella canzone “A questo punto il prezzo qual’è”, molto critica verso gli intellettuali alla Cesare Pavese (v. “…l’umore antico di un uomo costante…”)?
R. Io posso capire Pavese ma contrapppongo alla sua mitologia sul “paese”, sui campi, le colline, la luna e i falò, la realtà di Costante che invece il paese ce l’ha dentro. In un certo senso l’atteggiamento di Pavese equivale a quello odierno di certi “arancioni” o affini che vanno a vivere in campagna. Ma io credo che sia una questione filosofica o ideologica. Il senso materiale della terra o ce l’hai o non ce l’hai; non c’è ideologia che tenga.
UNA BALLATA PER FRANCO SERANTINI
D. Tu hai dedicato una ballata a Franco Serantini, il giovane anarchico assassinato a Pisa dalla polizia nel maggio 1972. Mi dicevi di averlo incontrato qualche volta a casa di tuo fratello, Luciano (Luciano Della Mea, scrittore, 1924-2003 ndr). Ricordo che tuo fratello ebbe un ruolo non indifferente nel denunciare il pestaggio subito da Franco (si costituì parte civile con Guido Bozzoni riuscendo a impedire la frettolosa, già richiesta, inumazione del cadavere di Serantini ) e nelle polemiche che poi sfociarono in due manifestazioni distinte a Pisa…
R. Franco Serantini era molto amico di mia nipote, Maria Valeria Della Mea, anarchica e figlia di Luciano, mio fratello. La ballata in realtà venne scritta da un numeroso gruppo di compagni di varia tendenza, dagli anarchici a Lotta continua. Io mi limitai ad alcuni aggiustamenti metrici e per la musica usai quella di una ballata dedicata a Felice Cavallotti.
A Pisa vi furono due manifestazioni perché c’era chi voleva a tutti i costi appropriarsi della morte di Franco, installarci la sua bandierina. Questa era, in sostanza, la posizione di Adriano Sofri. In vece Luciano, mio fratello, riteneva che la formidabile ondata di sdegno e solidarietà che la morte del giovane anarchico (massacrato dalla Celere e poi lasciato crepare in carcere ndr) fosse troppo preziosa per farne una questione di bandiera. Alla fine si tennero due distinte manifestazioni: in una parlò Adriano Sofri, nell’altra Umberto Terracini.
D. E gli anarchici?
R. Se non ricordo male anche tra gli anarchici vi furono valutazioni diverse. Penso fossero più o meno “equamente” distribuiti tra le due manifestazioni. Tra l’altro pioveva che Dio la mandava. Di questo se ne ricordano bene tutti i partecipanti, tranne Marino che però sostiene di ricordarsi di essere stato istigato da Sofri ad ammazzare Calabresi proprio in quella circostanza….**
D. Usi ancora la “Ballata per Franco Serantini” nei tuoi spettacoli?
R. Sì, spesso. Naturalmente è una di quelle canzoni che richiede certe spiegazioni. Io le considero “canzoni d’uso per la memoria storica”.
…MOLTI VIETNAM…
D. C’è una tua vecchia canzone su Cuba, sul fatto che “dovere di ogni rivoluzionario è soltanto fare la rivoluzione…”Come la giudichi a tanti anni di distanza?
R. Quella su Cuba è del ’67, quando appunto andai a Cuba. Si intitolava “Creare due, tre, molti Vietnam”. Non mi capita di cantarla spesso ma di sicuro non rinnego niente, anzi.
Il destino delle varie canzoni a volte è molto diverso. Poco fa mi parlavi di quella canzone che ho scritto su un fatto accaduto da queste parti (a Torrebelvicino, vicino a Schio ndr) e mi parlavi di un ex partigiano divenuto poi padrone di una fabbrica. Un giorno, agli inizi degli anni settanta, di fronte ad un picchetto di operai non trovò di meglio che tornare ad imbracciare il fucile per sparare nel mucchio (un operaio rimasto ferito perse un occhio ndr). Sinceramente me ne ero completamente scordato, hai fatto bene a ricordarmela. Altre mie canzoni invece sono entrate nel patrimonio storico della sinistra, come “Cara moglie”.
D. Possiamo riassumere a grandi linee la tua produzione?
R. Le mie prime canzoni risalgono agli inizi degli anni sessanta, con la “Ballata della piccola e grande violenza”. I dischi principali sono: “Io so che un giorno (con le ballate del Gioan); “Il rosso è diventato giallo”; “Se qualcuno ti fa morto”; “La balorda”; “La ringhiera” (sulla strage fascista di Brescia); “Fiaba grande”; “La piccola ragione di allegria” (su mio fratello); “Su da dio, giù da bestia”, un lavoro sulle contraddizioni, sull’emarginazione metropolitana e sulle risposte di alcuni settori giovanili, in particolare sulla droga. Risale al ’77, in coincidenza con l’incremento dei morti per overdose.
Per i cent’anni dalla morte di Carlo Marx, in collaborazione con l’Università di Urbino, ho fatto “Carlet”. Poi, finita ormai l’esperienza dei Dischi del Sole, ho continuato a scrivere libri.
D. Ce li puoi elencare?
R. Con l’editore Bertani (il mitico Bertani di Verona…ndr) ho pubblicato “Fiaba d’orso, di bagato e di un giorno centenario”, su come ho vissuto il centenario della morte di Marx. Poi, per Interno Giallo, “Il sasso dentro”, un romanzo nero metropolitano. Con “Se nasco un’altra volta ci rinuncio” ho vinto il premio Forte dei Marmi. Poi c’è stata “Cantata Ambrosiana” e l’ultimo, per ora, “Un amore di luna” edito dalla Granata Press (ricordo che Ivan ha scritto anche moltissimi articoli per l’Unità, Il Manifesto, Linus…ndr).
D. Senti, qui siamo a due passi da Padova. Mi viene in mente un episodio (di cui hai anche raccontato su Linus…) che ti ha visto schierato a fianco degli “autonomi” del Centro Sociale “PEDRO” contro alcuni “benpensanti di sinistra” (diciamo così…) patavini…?
R. Sì, mi ricordo i fatti di cui parli…Risalgono al 1987, in occasione di un concerto organizzato dall’ARCI di Padova nel Salone dei Giganti. I giovani compagni del “PEDRO” (un compagno assassinato dalla polizia a Trieste nel 1985 ndr), sostenendo che le mie canzoni esprimevano contenuti molto vicini ai loro, chiesero con molta urbanità di poter esprimere il loro pensiero nel corso di un seminario pomeridiano, sollevando soltanto le obiezioni di un professore universitario. Mi chiesero poi di poter fare un intervento, leggere un loro comunicato durante l’intervallo del concerto della sera. Naturalmente diedi il mio consenso. Salirono sul palco con uno striscione e lessero il comunicato suscitando le ire di quel professore universitario che diede una sberla ad un compagno del centro sociale. Costui evidentemente non aveva ben interiorizzato la nota massima evangelica e rispose con un pugno, a mio avviso giustificato. La mattina dopo veniamo a sapere che il ragazzo del centro sociale era stato denunciato. Andai subito in questura con il responsabile dell’ARCI per dichiarare che i ragazzi avevano avuto il permesso di intervenire e che il primo a menare le mani era stato quel professore. Ricordo che la cosa mi fece incazzare e scrissi quell’articolo per Linus. Si incazzò anche il PCI (nei miei confronti) e io tornai a Padova per fare un concerto al “PEDRO”. Tutto qui.
D. L’ultima volta che ti ho visto è stato in televisione. Suonavi e cantavi “O cara moglie” davanti ai cancelli della FIAT durante i famosi 33 giorni…
R. I trentatré giorni della FIAT me li sono fatti tutti. Secondo me è stata una sconfitta voluta.
D. Voluta da chi (a parte Agnelli & C., ovviamente)?
R. Anche da una parte del sindacato. In fondo c’era questa esigenza di ristrutturare, condivisa dagli stessi sindacati…Le ragioni della sconfitta erano quindi organiche. Un vero disastro comunque, con conseguenze irreparabili. C’è anche un altro aspetto da rilevare. In quei trenta giorni la mobilitazione fu praticamente tutta esterna; non c’era nessuno dei minacciati di cassa integrazione. Molti di loro erano giovani e in fondo è logico che un giovane se ne freghi se va in cassa integrazione. Al momento dell’accordo poi, come al solito, gli operai dissero di no e i delegati di sì. Ancora un’occasione persa per riflettere sulla democrazia dentro il sindacato…
I CENTRI SOCIALI A MILANO
D. Se Nando Della Chiesa avesse vinto le elezioni a Milano a quest’ora, con ogni probabilità, saresti “assessore ai Centri Sociali”…
R. E sarei subito ricorso alla consulenza di Primo Moroni. Tieni presente che, a mio avviso, è uno dei maggiori esperti di Centri Sociali, non solo a Milano. Fin dall’inizio ha studiato da vicino la nascita di queste realtà auto-organizzate***. Personalmente ritengo sia pericoloso rinchiudere sotto la stessa definizione di C.S.A. Situazioni estremamente composite. Soprattutto nel rapportarsi alla realtà esterna, al territorio. Autogestione è una parola bellissima, facile da capire e, apparentemente, da tradurre in pratica quotidiana. Invece il termine “territorialità” è più complesso. Anche da praticare correttamente.
E’ opinione diffusa, anche in alcuni settori del Movimento, che se Formentini (ex sindaco leghista a Milano ndr) non avesse fatto del Leoncavallo una questione nazionale, forse il Leoncavallo rischiava di estinguersi per un processo di autoghettizzazione. Anche la questione del “casino” in ore notturne era poco più di un pretesto, un problema che si andava risolvendo: i compagni avevano già speso milioni per insonorizzare adeguatamente****.
Il problema vero era quello di sapersi porre in una prospettiva di reale apertura, di rappresentarsi con il territorio. E’ una cosa nota che da almeno dieci anni le uniche, o quasi, novità culturali valide a livello europeo prodotte in Italia sono nate e cresciute nei Centri Sociali, sia per la musica che pe il teatro. Questo spiega perché il Leoncavallo fosse una cosa di giorno e un’altra di notte, quando veniva occupato da 4-5mila persone che volevano vedere le avanguardie artistiche. Giustamente Primo Moroni sostiene che l’apertura alla città dei leoncavallini è avvenuta solo “in difesa”, ossia come risposta tattica all’attacco della giunta. I dieci-quindicimila delle manifestazioni avrebbero potuto e dovuto essere molti di più. C’è stata la quasi totale assenza delle organizzazioni e dei partiti della sinistra. Non bastava la presenza per quanto significativa di Umberto Gay. Bisogna riconoscere che nonostante le assemblee al Teatro dell’Elfo non si è riusciti a spiegare adeguatamente alla città che il Leoncavallo riguardava tutta Milano, tutti i Centri Sociali…Personalmente ho scritto sull’Unità che non bastava firmare manifesti e appelli, ma che alle iniziative del Leonka bisognava partecipare fisicamente. Soprattutto nel caso di prevedibili interventi da parte della polizia. Bisognava far capire a quella testa di cazzo di Formentini (quello che chiamava i compagni del Leoncavallo “randagi che non hanno diritto di cittadinanza”) che il suo atteggiamento è politicamente controproducente oltre che sbagliato.
1500 IRRIDUCIBILI VECCHIETTI
D. Restando alla situazione milanese, cosa vorresti aggiungere?
R. A Milano non c’è solo il Leoncavallo. Il centro occupato di viale Transiti, per esempio, in questo momento è sicuramente il migliore centro di prima assistenza medica della città. Come laboratorio medico per analisi, come attrezzature comprate personalmente dai medici che vi operano volontariamente. Siccome ci vanno soprattutto extracomunitari anche via Transiti è a rischio con questa amministrazione leghista (stiamo parlando del 1995 ndr). Poi c’è Villa Mantea, un centro di prima accoglienza, per cui il solito Primo Moroni è riuscito a strappare un mandato. Io personalmente sono presidente di un circolo ARCI, costituito prevalentemente da anziani, che da un punto di vista logistico rischia di venir chiuso anche domani: non ha alcuna agibilità, nemmeno il numero civico…
Per ora non ci hanno sfrattato solo perché la giunbta non farebbe una bella figura a mandare le ruspe contro millecinquecento vecchietti.
A mio avviso comunque -e per concludere- anche da parte dei compagni si sono commessi errori grossolani. Figurati che non è ancora stata fatta una mappatura completa dei vari centri sociali e affini. Soprattutto penso sia anche una questione di responsabilità personale. Non è più possibile delegare sempre e comunque. Occorre sapersi impegnare individualmente: la responsabilità politica è anche soggettiva. Se sei convinto di una cosa e non la fai sei responsabile del suo fallimento. Voglio dire che se credo giusta una determinata manifestazione devo andarci di persona, non limitarmi a firmare l’appello. Altrimenti i Centri Sociali rischiano di chiudere…
Gianni Sartori
* nda Assieme a quelle di Gualtiero Bertelli, Stefano Maria Ricatti, Paolo Pietrangeli, Fausto Omodei, Claudio Lolli, Alessio Lega…magari anche Gianfranco Manfredi (almeno per i versi “Non aspettarti comprensione da lui, son troppi anni che non prende più il tram”…).
** nda stando a quanto mi raccontava Valerio (un compagno di Pistoia che partecipò alla manifestazione e che in seguitò lavorò nella tipografia di Carrara dove si stampava Umanità Nova, anche insieme a Giovanni Marini) ad un certo punto “qualcuno”, indispettito da alcune frasi con cui LC cercava di appropriarsi della morte di Serantini, avrebbe strappato la spina del microfono proprio mentre parlava Sofri (che a qual punto parlò solo per le prime file, in sordina diciamo).
Notizia verosimile ma storicamente non documentata.
* **nda casualmente, nel 2009, mi trovavo a Milano e ho partecipato alla manifestazione – non autorizzata e blindatissima- contro lo sgombero del CSOA Cox18 di via Conchetta dove l’archivio di Primo Moroni (1936-1998, fondatore della libreria Calusca) aveva trovato ospitalità. L’archivio, di inestimabile valore storico, rischiava di venire disperso e danneggiato a causa delle perquisizioni e del sequestro da parte della polizia. Moratti e De Corato: i mandanti.
http://www.carmillaonline.com/2009/01/22/sgombero-del-centro-sociale-conchetta-a-milano/
** **nda Confermo: ancora nel 1985 avevo visitato il Leoncavallo “storico” (quello originario) e già all’epoca erano in corso lavori di ristrutturazione e insonorizzazione (al prezzo purtroppo della cancellazione di molti dei bellissimi murales originari). Ricordo di aver anche conosciuto un giovane Daniele Farina (presumibilmente ancora “integro” e non ancora “cinico ideologo” come lo definì Primo Moroni) che mi regalò una copia del prezioso “Che idea morire di marzo” in memoria di Fausto e Iaio (assassinati nel marzo 1978 dai NAR).