Di nuovo…
Mentre è a tavola con i nonni la bambina in foto nota lo sguardo del padre basso sul piatto. Sembra imbarazzato.
Lei ha solo 8 anni, l’estate sta per terminare e freme al pensiero di tornare a scuola e rivedere le sue amiche. Però nota che suo padre è lì, con la testa nel piatto, e cerca qualcosa. Forse delle parole, un modo per dire qualcosa. Non ci riesce. Però deve. Non sa come spiegare, ma non può evitare.
“Devo dirti una cosa” sbotta all’improvviso.
“Cosa?”.
“Sei stata espulsa dalla scuola”.
Liliana trasecola. Non capisce. E’ stordita.
“Come espulsa? Cosa vuol dire? Non ho fatto niente”.
Ed è così, lei non aveva fatto niente.
Però può accadere, a un certo punto della storia, che un popolo decida di instaurare un rapporto di simbiosi con un suo leader politico, un “Messia”.
Un rapporto nel quale, in cambio della più totale adorazione, il leader dia al proprio popolo un capro espiatorio, qualcuno con cui prendersela, facile da individuare, debole; qualcuno su cui scaricare la responsabilità dei propri guai, su cui sfogare rabbia, frustrazione, odio. Un leader, un “Messia”, che dica: “Mio popolo, tu non sei colpevole di nulla. Sei onesto, giusto, innocente. La colpa di ogni tuo problema è tutta di quegli altri. Odiateli. Vi è permesso”.
Può così accadere che un popolo anche civile, moderno, istruito, decida, per comodità, di credere a quella narrazione. Decida, “autorizzato” dal proprio leader, che alcune persone, tutte rientranti in una stessa “categoria”, debbano essere punite, odiate, condannate, private dei diritti, perfino soppresse, giudicate in blocco colpevoli. Di tutto. Di ogni male del Paese in cui vivono.
E il papà di Liliana, quel giorno di fine estate del 1938, non sapeva come spiegare alla sua bambina tutto questo. Che lei, ebrea, a 8 anni, fosse stata giudicata colpevole dal popolo italiano. Responsabile, a 8 anni, di tutti i problemi del Paese. E che per questo, fosse stata espulsa da scuola.
Negli anni che seguirono Liliana perse tutto. Le amiche smisero di cercarla da subito. Fu evitata, odiata, emarginata. Arrivò la guerra e cominciarono a partire degli strani treni pieni di ebrei. Liliana cercò di fuggire col padre. Ma furono trovati e messi nel vagone bestiame di un treno, a Milano. Aveva 13 anni. E non aveva fatto niente di male a nessuno.
Il viaggio durò una settimana. Erano in 50, in quel vagone, e la facevano tutti nello stesso secchio, che si riempì dopo poche ore. E per una settimana, in silenzio, Liliana respirò solo merda e piscio. Perché gli italiani avevano bisogno di darle la colpa.
Arrivò al campo, ad Auschwitz e fu separata dal padre. Che fu ucciso. Perché gli italiani avevano bisogno di scaricare su qualcuno le proprie colpe. Le presero il braccio, ci tatuarono sopra un numero: 75190.
Immaginate l’inverno. Immaginate la neve. E ora immaginate di potervi coprire solo con un pigiama di cotone rigenerato. E non potervi mai, mai scaldare. Immaginate di mangiare solo un pezzo di pane la sera. Immaginate la fame. E di lavorare fino allo sfinimento.
Immaginate di vedere ogni giorno le persone morire. Di essere picchiati.
Immaginate la notte. “Della notte nei lager non parla mai nessuno” ha raccontato. La notte non c’era silenzio. C’erano le urla disperate delle mamme che chiamavano i figli portati alle camere a gas. E dei bambini che chiamavano le mamme.
Perché gli italiani avevano bisogno di qualcuno con cui prendersela.
Quella bambina è poi sopravvissuta. Tra le poche, su 6 milioni di morti. Perché gli italiani e i tedeschi avevano bisogno di qualcuno su cui sfogarsi.
Ed è ancora viva. E ricorda quale fu il clima di odio che precedette tutto quell’orrore. Ricorda che le camere a gas non arrivarono subito, ma dopo anni di sapiente lavoro, di odio, di demonizzazione, di notizie false, di istigazione.
E oggi, da parlamentare della Repubblica italiana, quella bambina col braccio ancora tatuato, ha solo chiesto di istituire una commissione che si occupi del clima che sta rivivendo, dopo 70 anni, nel suo Paese. Perché sa, alla fine, dove può portare questo clima. A quale livello di disumanizzazione, l’odio quotidiano, l’istigazione quotidiana, possa piano piano portare.
Fino a pochi anni fa nessuno si sarebbe sognato di astenersi in Parlamento su una proposta contro l’odio, di non tributarle un applauso, di restare seduti. Ma adesso si può. Senza più doversi nascondere. Adesso si può.
Di nuovo.
Emilio Mola