Fiat, ci sei costata cara.
Fiat, ci sei costata cara. E ora Marchionne saluta tutti
E adesso anche i fan più irriducibili sono costretti a ricredersi. A malincuore, magari, ma si ricredono. Dei venti miliardi che Marchionne aveva promesso di investire nel nostro paese non si è vista neppure l’ombra. Chi aveva preso per oro colato il piano Fabbrica Italia, nei giorni scorsi ha ricevuto una doccia gelata. Il supermanager di casa Fiat ha spiegato senza mezzi termini che sarebbe un azzardo fare investimenti nella situazione attuale.
Che il mercato è peggiorato rispetto alle previsioni di un anno fa. Che lanciare nuovi modelli non servirebbe a risollevare le sorti del marchio automobilistico in Italia e in Europa. Per ora non è in ballo la chiusura degli stabilimenti italiani. Marchionne assicura di non avere in mente interventi traumatici. Ma è una promessa. Come le altre. E intanto bussa alla porta del governo.
Chiede ammortizzatori sociali. Il prossimo anno andrà in scadenza la cassa integrazione straordinaria che, al momento, è applicata in dosi massicce a Mirafiori, Pomigliano e all’ex Bertone di Grugliasco. Per non far scattare i licenziamenti servirà la cassa in deroga. Di questo, presumibilmente, si parlerà nell’incontro di oggi tra Marchionne e il premier Monti. Al manager è stato concesso tutto, ma proprio tutto, in cambio della promessa di rilancio della Fiat sul mercato italiano ed europeo. Marchionne ha immolato tutto quello che si poteva immolare sull’altare dei dividendi degli azionisti. Ha fatto terra bruciata delle relazioni industriali.
Ha stracciato contratti, ha posto ultimatum, ha azzerato diritti.
Scelte dolorose ma necessarie – ci dicevano gli ammiratori di Sergio – perché in Italia la produttività è bassa e i nostri operai lavorano meno dei loro colleghi polacchi. Anche se oggi gli stabilimenti vanno avanti a ranghi ridotti e a mezzo servizio perché la Fiat perde quote di mercato.
Quando Marchionne decise di abbandonare unilateralmente il contratto nazionale dei metalmeccanici e uscire da Confindustria, in tanti lo acclamarono come un manager innovativo e coraggioso. Giornali come il “Foglio” videro in lui l’artefice di una rivoluzione del capitalismo italiano, un eroe “americano” che finalmente avrebbe spazzato via particolarismi e interessi di bottega. E quando a Pomigliano e Mirafiori i lavoratori vennero chiamati sotto ricatto a pronunciarsi sull’accordo separato tra l’azienda, Cisl e Uil, non una voce si levò contro.
A eccezione di quella della Fiom.
I vertici del Lingotto minacciarono chiaramente che, nel caso i lavoratori avessero respinto l’accordo, la Fiat avrebbe abbandonato l’Italia per investire altrove. Unico risultato ammesso, la vittoria del sì. In quei giorni la pressione sui lavoratori raggiunse livelli inconcepibili. «Se fossi un lavoratore della Fiat voterei sì al referendum sull’accordo a Mirafiori», dichiarò Piero Fassino, candidato a futuro sindaco di Torino. I sì finirono per vincere, anche se di poco.
Ma il sacrificio si è rivelato inutile. La Fiat del dottor Marchionne aveva già deciso di abbandonare il proprio core business in Italia. L’obiettivo era un altro, politico: smantellare il sistema delle relazioni industriali. Niente investimenti, quindi. Dopo oltre cento anni di storia patria la Fiat non ha piani industriali per il paese in cui è nata e dal quale ha ricevuto nel corso del tempo massicci aiuti pubblici (leggi: soldi dei contribuenti). L’orizzonte, oggi, è altrove. Oltreoceano. «La Fiat manca di progetti e la colpa principale è di Marchionne.
La strategia la decide lui e non gli azionisti. Lui voleva andare in America e c’è riuscito». Parole pesanti di Cesare Romiti che ai vertici del Lingotto ha trascorso vent’anni nel ruolo di manager. «Credo che in questi anni gli azionisti abbiano dato abbastanza soldi all’amministratore delegato.
E bisognerebbe anche calcolare il valore delle tecnologie trasferite da Fiat a Chrysler. Tecnologie e saperi accumulati in cento anni di storia della Fiat». Romiti rivendica la strategia industriale del Lingotto di una volta, quando oltre che nel core business dell’auto, il gruppo investiva anche in treni e telecomunicazioni. «La Fiat è stata grande fino agli anni ’90. Oggi no». In Italia, la grande impresa non esiste più. La crisi e l’andamento del mercato c’entrano poco con i mancati investimenti nel nostro paese, tanto quanto i turni o la durata delle pause dei lavoratori di Pomigliano e Mirafiori.
L’Italia non interessa più perché questa è la strategia di Marchionne.
Una scelta, dunque. «Quando un’impresa automobilistica per due anni sospende la progettazione perché c’è crisi di vendite – affonda Romiti – ha decretato la morte dell’azienda. Si è tagliata fuori. E i sindacati, tranne la Fiom, con la loro inerzia hanno facilitato quello che è successo». Se fosse vero quel che va sostenendo in questi giorni Marchionne – che la Fiat non ha progettato nuovi modelli in Europa perché avrebbe perso miliardi, dato il declino epocale dell’auto – non si capirebbe per quale motivo invece le altre case automobilistiche abbiano continuato a sfornare nuovi modelli. Del resto, è poco credibile che Marchionne si sia reso conto solo adesso dell’abnorme capacità produttiva dell’industria automobilistica, ben al di sopra dei limiti di assorbimento del mercato. Il settore dell’auto era saturo anche un anno fa, quando l’amministratore delegato della Fiat ostentava con il Piano Italia l’obiettivo del raddoppio della produzione. Eppure, nonostante tutto, malgrado la crisi da sovrapproduzione, come mai la Fiat, a differenza dei marchi concorrenti, è quella messa peggio sul mercato europeo? Che sia un semplice effetto ottico, dovuto al riposizionamento del Lingotto su una scala globale.
Macché, anche questa è una leggenda da sfatare. «Ci andrei piano con i miti globali», ha scritto Massimo Mucchetti sul “Corriere” di mercoledì. «Globali sono la Toyota, la Volkswagen, la Ford, la Gm, la Mercedes, la Bmw e la Renault-Nissan. Vista in prospettiva, la Fiat non appare molto più globale di com’è stata altre volte in passato. Ci fu un’epoca in cui la Fiat possedeva la Seat in Spagna (ceduta a Volkswagen), la Simca in Francia (finita alla Chrysler), la Zastava in Jugoslavia. La Fiat aveva già la grande unità produttiva polacca. A Belo Horizonte ha aperto negli anni Settanta […]. In Unione Sovietica, Agnelli e Valletta erano andati ancor prima. Non aveva gli Usa, la Fiat. E’ vero.
Ma di questo passo si sta giocando l’Europa». E quanto all’Italia – aggiungiamo – nessuna prospettiva chiara. Per quanto in questi giorni Marchionne escluda l’ipotesi di abbandonare la baracca, non è dato sapere su quali stabilimenti farà affidamento in futuro, con quanti occupati e in vista di quale strategia industriale. «Mi impegno, ma non posso farlo da solo.
Ci vuole un impegno dell’Italia». Che, suppergiù, suona come un batter cassa all’indirizzo del governo. Che altro non è, poi, che l’ennesima riedizione della storia passata. Tutti i principali investimenti della Fiat sono stati sempre finanziati dagli aiuti di Stato e dai soldi dei contribuenti. Ricambiati malamente. Un vecchio motivo nella storia del capitalismo italiano che è cresciuto sul divario tra la grande e la media impresa: quest’ultima ha sempre rimproverato alla prima di aver goduto di generose elargizioni di denaro pubblico.
Questa rivalità di interessi all’interno della borghesia nazionale è tutt’altro che sopita ancora oggi. Il patron della Tod’s, Diego della Valle, ha attaccato nei giorni scorsi Sergio Marchionne. «Sul piano per l’Italia oggi dovrebbe dire abbiamo fatto degli errori, abbiamo presentato un piano che non va bene, oggi ci risiediamo ad un tavolo, ci presentiamo al governo e al paese con un piano diverso, ma siamo qua, e rassicuriamo le persone che lavorano sul comportamento che terremo. Quello che si percepisce invece è che dopo averla sparata grossa se ne stanno andando alla chetichella». La famiglia Agnelli «non è una famiglia normale», ha «degli obblighi» verso il paese e i lavoratori da cui «ha avuto un aiuto grandissimo». Per tutto quello che «si è fatta dare» la Fiat potrebbe essere considerata «una azienda pubblica». «La famiglia Agnelli dovrebbe mettere le mani in tasca, evitare di farsi dare dei dividendi come fanno tutti gli imprenditori seri quando le loro aziende hanno dei problemi. E investire quello che serve nell’azienda».
Ma a quanto ammonta il debito morale – pardon, materiale – che la Fiat ha contratto nei confronti della collettività? Checché ne dicesse Luca Cordero di Montezemolo un paio d’anni fa, quando era ancora presidente del gruppo, («da quando sono alla Fiat non abbiamo ricevuto un euro dallo Stato»), la storia del Lingotto gronda di aiuti pubblici. Sotto ogni forma: sussidi, incentivi alla rottamazione, finanziamenti, sostegni indiretti. Per fare un esempio, solo nel 2009 gli ecoincentivi hanno portato un beneficio di 600 milioni di euro nelle casse della Fiat.
Dal 2004 al 2010 – il periodo in cui Montezemolo ha ricoperto la carica di presidente – l’azienda ha beneficiato di altri 600 milioni di agevolazioni pubbliche per investimenti e attività di ricerca.
Per il decennio tra il 1999 e il 2009 la stessa Commissione europea avviò sei procedure di indagine riguardo ad alcuni aiuti dello Stato italiano a vantaggio della Fiat per una somma totale di 120 milioni di euro, per sospetta infrazione delle norme della disciplina comunitaria per l’industria automobilistica. E se si va a ritroso nel tempo, dalla fine degli anni Settanta a oggi, la Fiat avrebbe incassato dallo Stato la bellezza di quasi un miliardo e mezzo di euro (così scrive sul proprio blog Antonio Di Pietro), ai quali vanno aggiunti gli aiuti sotto forma di cassa integrazione, pari a diverse decine di milioni di euro.
Un altro studio messo a punto dalla Cgia di Mestre (il centro studi dell’Associazione artigiani piccole imprese), invece, alza addirittura a 7,6 miliardi gli aiuti statali ricevuti dal Lingotto dal ’77 a oggi.
Di questi, 6,2 miliardi sarebbero stati impiegati per investimenti. La somma non tiene conto però dei soldi pubblici spesi in ammortizzatori sociali, né degli ultimi contratti approvati dal Cipe nel biennio 2010-2011. «In assoluto – spiega sempre la Cgia di Mestre – l’investimento più importante è stato quello che si è reso necessario per la costruzione degli impianti produttivi di Melfi e Pratola Serra (1990-1995) che sono costati alle casse dello Stato quasi 1,28 mld di euro».
Pesano anche le ristrutturazioni alla Sata di Melfi (1997-2000) e all’Iveco di Foggia (2000-2003). Per la prima, lo Stato ha investito 151 milioni di euro, per la seconda 121,7 milioni. Lo Stato italiano, a pensarci bene, con tutti questi soldi, la Fiat avrebbe potuto comperarsela da tempo.