Il pianeta al servizio della multinazionali
La crisi sovverte e modifica il quadro geopolitico internazionale, mutando i rapporti di forza a livello internazionale e rimettendo in discussione egemonie storiche, sinora date per indiscutibili. Da una parte le nuove potenze emergenti del Sud del mondo, quali Brasile, India, Sudafrica e Messico continuano a crescere e sviluppare il proprio mercato interno, rivelandosi difficilmente controllabili attraverso gli strumenti vecchi dei Forum internazionali, come il G20, e, in alcuni casi, rafforzando la costruzione di nuove aree commerciali regionali sottratte all’influenza statunitense, come l’area Mercosur in America Latina; dall’altra, sul versante pacifico, l’asse economico e geo-politico tra il gigante cinese e la Russia si va prepotentemente affermando come epicentro degli equilibri mediorientali ed asiatici, in una graduale scalata al ruolo di leadership globale. Recenti statistiche affermano come la produzione economica combinata di Brasile, Cina e India supererà entro il 2020 quella di Canada, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, e come, entro il 2030, più dell’ 80% della classe media del mondo vivrà a sud.
Stretto nella morsa dei nuovi candidati all’egemonia internazionale, con il vecchio partner europeo intrappolato nella spirale delle politiche monetariste basate sull’austerità, lo stanco impero statunitense affila le unghie e adotta una nuova ambiziosa strategia per la riconquista di una nuova egemonia globale diffusa. Nasce da questa esigenza degli Usa l’enorme programma di smantellamento delle residue barriere -commerciali, giuridiche, politiche- al libero commercio e alla libertà di investimento messo in campo in direzione dell’Europa, attraverso il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) e in direzione di 11 paesi che affacciano sul lato del pacifico (Messico, Canada, Cile, Perù, Giappone, Australia, Malesia, Singapore, Vietnam, Nuova Zelanda e Brunei) attraverso il TPP (Transpacific Patrnership). L’obiettivo è la creazione della più grande area di libero scambio del pianeta, che comprenderà economie per circa il 60% del prodotto interno lordo mondiale, interamente governata dalle più potenti multinazionali economiche e finanziarie, agli interessi delle quali andranno sacrificati tutti i diritti sociali e del lavoro, i beni comuni e la stessa democrazia.
Se per gli Usa il TTIP rappresenta la necessità di “legare” alla propria economia il massimo numero di aree geo-politiche e commerciali possibili, per l’Unione Europea si tratta della più evidente e definitiva dichiarazione di resa di un continente che, già da tempo, attraverso la scelta della via rigorista e monetarista in economia, ha deciso di rinunciare alla propria originalità -quella di uno stato sociale, frutto del compromesso fra capitale e lavoro del secondo dopoguerra- per consegnarsi alle leggi dell’impresa. Se, fino all’inizio del nuovo millennio, l’Europa si presentava in maniera aggressiva dentro i contesti degli accordi internazionali – pensiamo al ruolo dell’UE all’interno del Gats nell’Organizzazione Mondiale del Commercio- presentandosi come un continente che, lungi dal proteggere le popolazioni dalla globalizzazione neoliberista, si candidava ad assumerne la guida, con l’adesione ai negoziati per il TTIP, l’Europa dichiara il fallimento di quella strategia e, nel contempo, rinuncia ad ogni tentativo di esercitare un proprio protagonismo sociale, per giocare la partita di una competizione internazionale, tutta giocata al ribasso in tema di diritti del lavoro, di beni comuni e servizi pubblici, di diritti sociali e ambientali.
Ma, al di là delle esigenze geo-politiche, il significato profondo del processo in corso con il TTIP (e con il gemello asiatico del TPP) è la consegna, dietro la strategia di riconquista della scena internazionale da parte dei vecchi padroni del mondo (Usa – Ue – Giappone), delle sorti del pianeta ad un disegno di politica economica mondiale che vede, forse non per la prima volta ma certo mai con questa intensità, il totale protagonismo politico delle grandi multinazionali, non più “relegate” ad un ruolo di influenza e pressione esterna sulle istituzioni politiche, bensì sedute a pieno titolo e in posizione privilegiata nei tavoli di negoziazione. Questo fatto rende il TTIP il luogo, dentro il quale si profila, per la prima volta nella storia, la costruzione a tavolino di un’area planetaria di libero scambio messa in campo da un’ elite transnazionale che, superando i confini tradizionali fra Stato e privati, tra governi e imprese, si sottrae ad ogni possibile controllo democratico.
Di fatto, e se approvato, il TTIP realizzerebbe l’utopia delle multinazionali: un pianeta al loro completo servizio, fino al punto di poter chiamare in giudizio presso una corte speciale, composta da tre avvocati d’affari rispondenti alle normative della Banca Mondiale, un qualsiasi paese firmatario, la cui scelte politiche potrebbero avere un effetto restrittivo sulla loro “vitalità commerciale”; potendole sanzionare con pesantissime multe per avere, con le proprie legislazioni, ridotto i loro potenziali profitti futuri. E per le elites dell’Ue rappresenterebbe anche la possibilità di superare in avanti, attraverso un “meta-trattato” strutturale, l’attuale difficoltà nell’imporre, Stato per Stato e governo per governo, le politiche di austerità e di smantellamento dello stato sociale, artificialmente indotte dalla crisi del debito pubblico. L’opposizione radicale al TTIP, oltre che una inderogabile necessità per le vertenze e le conflittualità promosse da qualsiasi movimento sociale attivo, rappresenta anche una grande opportunità: ottenere il ritiro “senza se e senza ma” di quello che rappresenta un disegno esaustivo e totalizzante di un’Europa al servizio dei mercati, metterebbe automaticamente in campo l’opzione di un’altra Europa possibile, quella dei popoli, dei beni comuni, dei diritti e della democrazia.
Marco Bersani – Attac Italia