Il sangue degli operai

Pur con la svolta contro la segregazione razziale che aveva fatto fare passi da gigante al processo democratico diventato esempio per molti paesi, in realtà vive attualmente una condizione disperata di disuguaglianza sociale e di disoccupazione. Dove, aggiungiamo, le maledette ricchezze del sottosuolo – diamanti, oro e platino – restano saldamente nelle mani “bianche” delle multinazionali.
Ieri la conferma drammatica, con la polizia che, come per uno dei tanti massacri dell’apartheid, a Sharpeville e a Soweto, spara sventagliando colpi di armi automatiche sui lavoratori in sciopero da un mese in una grande miniera di platino (del quale il Sudafrica è il principale produttore mondiale), di proprietà di una multinazionale britannica. Almeno diciotto morti e tanti feriti, mentre chiedevano solo più salario dell’equivalente miserabile dei circa quattrocento euro pagati dal colosso del platino. Minerale che, con oro e diamanti, è in vetta nelle borse delle merci e del denaro, essendo diventati ormai nella crisi internazionale più importanti della carta moneta e delle obbligazioni statali. Salario, platino e profitto. E la polizia di un paese che pensavamo democratico, con i liberatori dell’African National Congress al governo e mentre Nelson Mandela è ancora vivo, che invece uccide operai in lotta. Un paese del quale abbiamo preferito dimenticarci, convinti che l’immane obiettivo della distruzione del sistema razzista dell’apartheid fosse sufficiente a garantire la costruzione di una società diversa e più eguale.
Oro, platino, diamanti. A ben vedere non sono questi tristi e ricchi minerali la misura della crisi, ma il sangue versato dagli operai. Con questa strage in Sudafrica (come con le tante proteste cinesi), torna a parlare la condizione operaia mondiale, torna al centro la realtà della sua gigantesca espansione quantitativa, proprio quando in occidente sembra che se ne riduca il numero. Torna evidente la verità sulla violenza materiale ed economica del suo sfruttamento. E il suo straordinario valore politico.
Tommaso Defrancesco
Fonte IL MANIFESTO.it

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Un commento

  • Gianni Sartori

    …per non dimenticare chi ha lottato affinché “altri fossero liberi” (senza avere nulla in cambio…)

    I GUERRIERI DIMENTICATI DEL SUDAFRICA
    “Se questo paese è libero -si rammaricava un ex guerrigliero – ed ha potuto organizzare eventi come la Coppa del mondo, lo deve all’MK”, Umkonto we Sizwe, il braccio armato dell’African National Congress (ANC). Ma sembra che all’epoca nessun alto dirigente si fosse recato nel misero ufficio dei reduci, con le pareti ricoperte da manifesti ingialliti, per invitare qualche veterano alle manifestazioni.
    Tutto era cominciato il 21 marzo 1960. Quel giorno in diversi centri urbani della RSA si svolsero manifestazioni, organizzate dal Pan African Congress (PAC), contro l’obbligo per i neri di portare con sé un lasciapassare. Il regime rispose massacrando a Sharpeville decine di persone. Ufficialmente le vittime furono sessantanove, ma i testimoni sostengono che furono molte di più. Altre vittime a Langa (52 morti) e a Nyanga. Seguirono scioperi, manifestazioni, scontri con barricate e assalti agli uffici del Native Affairs Department. Migliaia di persone vennero arrestate, mentre le truppe isolavano i centri della rivolta. In aprile, il governo metteva fuori legge l’Anc e il Pac. Entrambe le organizzazioni costituirono un braccio armato. L’Anc con l’Umkonto we Sizwe (MK, “Ferro di lancia della nazione”) e il Pac con le unità Pogo (“Noi stessi”). Le prime azioni armate dell’MK contro alcuni palazzi ministeriali a Johannesburg, Port Elisabeth e Durban risalgono al dicembre 1961. Nel 1963, a Rivonia, vennero arrestati vari dirigenti dell’organizzazione clandestina e la guerriglia si trasferì nei paesi amici della “linea del fronte”: Zambia, Mozambico, Tanzania, Angola. Proprio in Angola vennero scritte alcune delle pagine più oscure della lotta di liberazione. Accusati di indisciplina e ingiustamente sospettati di tradimento, alcuni guerriglieri del “Campo 4” vennero torturati dai loro stessi compagni. Altri vennero fucilati per essersi rifiutati di tornare a combattere. In seguito, negli anni ottanta, l’MK porterà a segno alcune delle sue azioni più spettacolari e disperate: attentati contro i depositi di carburante e lanci di granate contro una centrale nucleare.
    Oggi i sopravvissuti dicono di sentirsi “messi da parte, cancellati dalla memoria del paese” come i volti dei loro antichi compagni, morti in combattimento o impiccati nelle carceri. Anche Mandela, il loro ex comandante, sembrava averli dimenticati. L’altro leader, Chris Hani (esponente dell’ANC e del SACP, il partito comunista sudafricano) era stato ammazzato in circostanze non del tutto chiare. Ufficialmente da bianchi razzisti, ma non si esclude un regolamento di conti interno all’ANC.
    Divenuto presidente, Jacob Zuma, per un breve periodo esponente dell’MK, aveva costituito un segretariato dotandolo di un modesto finanziamento. Un gesto comunque di buona volontà, anche se per la maggior parte di questi freedom fighters era ormai troppo tardi. Molti ex combattenti, ricordava Kebby Maphatsoe “vivono per la strada e per mangiare rovistano nella spazzatura”. Analogo destino per chi faceva parte delle Unità di autodifesa (SDU), 45mila ragazzi che negli anni ottanta presero alla lettera la consegna di “rendere ingovernabili le townships”. Agli scontri con l’esercito e la polizia si aggiunsero i conflitti settari con l’Inkhata Freedom Party (IFP, definiti quisling, collaborazionisti) e le lotte fratricide con formazioni minori. Una guerra civile a bassa intensità, alimentata ad arte dai servizi segreti del regime di Pretoria.
    Con la fine dell’apartheid, dopo un rapidissimo processo di smobilitazione delle strutture della guerriglia, in parte erano stati arruolati nell’esercito. Si temeva che questi uomini, provvisti di armi e abituati ad usarle, venissero utilizzati da gruppi più radicali o dalle gang criminali. La maggior parte non riuscì ad inserirsi e abbandonò l’esercito ritrovandosi in una condizione di emarginazione. Il giornalista Jean-Philippe Rémy (Le monde) ne aveva incontrati alcuni che si sono isolati sulle montagne del Magaliesberg, non lontano da Johannesburg. Perseguitati dai ricordi, avevano iniziato un processo di purificazione tradizionale che si richiama alle tradizioni guerriere dei popoli nativi.
    Gianni Sartori

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