Istat, operai, povertà e le verità nascoste
Il cappello a cilindro dell’Istat nasconde gli operai ma non riesce a far scomparire le diseguaglianze e la povertà
Il rapporto Istat 2017 conferma l’aumento della distanza tra i ricchi e i ceti popolari, questo nonostante l’accorpamento delle famiglie sociali analizzate, che soppiantano le figure sociali degli operai, impiegati, pensionati, disoccupati e imprenditori. Rispetto al passato infatti la chiave di analisi statistica , tutt’altro che neutrale, utilizzata dall’ISTAT introduce nove famiglie sociali che vengono individuate prevalentemente in base al principale percettore di reddito, per poi definirsi ulteriormente in relazione a successivi parametri (cittadinanza, componenti nucleo, situazione professionale,territorio, etc.).
Così, mentre per fronteggiare l’acuirsi della crisi sistemica il capitalismo sta imponendo una profonda riorganizzazione industriale e dell’intera catena del valore, dal rapporto ISTAT spariscono i riferimenti statistici sulle condizioni dei lavoratori dell’industria, del commercio, della distribuzione, dell’agricoltura. Nel corso degli anni il rapporto ISTAT è stato bonificato da alcuni elementi importanti, tra questi i dati sugli scioperi e sulla sindacalizzazione, con il rapporto 2017 l’Istituto oggi diretto dal professor Alleva conferma la tendenza alla rimozione dei dati utili a ricostruire la conoscenza delle ragioni del conflitto di classe. L’indirizzo statistico padronale rende sempre più necessario lo sviluppo di un punto di vista autonomo della classe lavoratrice.
Inchieste e analisi come quella affrontata dal nostro Cestes Proteo : “La grande fabbrica. Dalla catena di montaggio alla catena del valore” assumono un rilievo importante per capire gli snodi, i luoghi e i soggetti da cui può svilupparsi il conflitto di classe.
Nonostante tutto il rapporto dell’ISTAT, non può nascondere il veloce tracollo verso la povertà di milioni di uomini e donne, dei giovani in questo paese e con esso l’aumento di tutti gli indicatori di “deprivazione materiale”, di esclusione dai servizi, dalla cultura, dalla cura e dal benessere della persona. Tra questi c’è il dato delle nascite che secondo lo stesso Alleva, ci riporta all’Italia del cinquecento quando però la popolazione era un quinto di quella attuale. Il crollo delle nascite se prima riguardava gli italiani oggi investe anche i migranti, a conferma del ruolo che giocano le condizioni sociali e la precarietà lavorativa, imposte dal profitto e sostenute dalle istituzioni nazionale e dell’UE con specifiche leggi e normative, in base al dogma dell’austerità.
La redistribuzione della ricchezza, secondo il rapporto dell’istituto di statistica, taglia fuori settori popolari, che vedono crollare i salari e che accedono con maggiore difficoltà ai servizi, che, come denunciamo da tempo, vengono tagliati e quindi ridotti drasticamente, privatizzati e con tariffe insostenibili.
Volendo prendere per buono lo spettro analitico dell’ISTAT, il rapporto dice che non c’è speranza di emancipazione sociale, come pure era avvenuto nei decenni in cui il conflitto di classe aveva prodotto avanzamenti e progresso per tutta la società italiana, né di reale democrazia per la maggioranza dei componenti i 20 mila nuclei familiari, siano essi composti da stranieri o italiani a basso reddito, da giovani blue collar, da pensionati o da impiegati.
Alleva nel suo discorso non ha potuto fare a meno di ammettere che “ l’intervento pubblico ha molte possibilità di rimuovere gli impedimenti alla parità delle opportunità, a partire dall’istruzione e dalla formazione del capitale umano”.
L’USB lo sostiene da tempo, dicendo no alle privatizzazioni a partire dai servizi pubblici, dalla richiesta di re-internalizzazione dia dei lavoratori che dei servizi dati in pasto alla voracità delle società appaltatrici, occasioni tra l’altro di corruzione. Il nostro paese ha perso sempre più peso nel settore industriale a causa del pesante ridimensionamento della grande industria, ma nonostante ciò rimane il 2° paese manifatturiero d’Europa . Altro che scomparsa della classe operaia, essa semmai ha allargato i suoi confini oltre il perimetro delle officine.
Le più grandi aziende pubbliche e private sono state o sono, come ILVA e Alitalia, in procinto di essere spezzettate e vendute secondo la visione dei più fanatici privatizzatori mai avuti al governo. Occorre allora rinazionalizzare le aziende strategiche in crisi, i settori importanti come energia , TLC e trasporti. Alla logica predatoria e fallimentare del mercato rispondiamo con la necessità del bene pubblico, con il rilancio e finanziamento della scuola, della sanità e della previdenza pubblica.
L’USB ha chiamato il suo congresso “Riprendiamoci tutto”, consapevoli delle condizioni a cui questa classe padronale e politica ha sprofondato i lavoratori. Ce lo raccontano i braccianti, i lavoratori dei call center, gli operai della logistica e dell’industria, sono storie di stipendi da fame, di sfruttamento e di nocività e di precarietà estrema.
Dobbiamo invertire una tendenza che vede ormai i padroni imporre condizioni sempre più simili allo schiavismo, sappiamo che per farlo dovremmo costruire una risposta di lotta e all’altezza del nostro avversario di classe.
USB Nazionale