Monti, i sindacati e la concertazione
Tirato per la giacchetta dall’Europa, da Napolitano, dai sindacati, da Confindustria, dai riposizionamenti in parlamento di Pd, Pdl e terzo polo, il presidente del consiglio Mario Monti abbandona la consuetudinaria calma e lancia accuse alle parti sociali, datori di lavoro e sindacati, di essere i principali attori della situazione in cui versa l’Italia. Sarebbe la concertazione il male del paese. In un certo senso ha ragione: per i lavoratori ed i giovani la concertazione è stato ed è il male di questo paese. Per almeno vent’anni l’azione del sindacato è stata tutta improntata alla continua ricerca di un’intesa con le rappresentanze padronali perché un buon sindacato deve sempre trovare un accordo o almeno questa era la giustificazione.
Gli anni di sconfitte dei lavoratori, le cui ferite sono facilmente visibili anche agli ipovedenti, sono la più concreta ed evidente dimostrazione dell’inesattezza di questa teoria, che inoltre ha distanziato sempre più i rapporti di interdipendenza tra i dirigenti sindacali e la base arrivando ad una sostanziale autonomia decisionale dei vertici. Le dichiarazioni di Monti hanno trovato impreparati i rappresentanti sindacali nazionali, che si sono limitati ai inneggiare ancora all’importanza del metodo, che dovrebbe garantire al paese la coesione sociale.
La coperta è corta e perfino i più scettici ormai hanno capito che nel tiro alla corda tra interessi di classe contrapposti una parte avanza e l’altra retrocede. Un sindacato come la Cgil, ramificato su tutto il territorio nazionale, ha la forza per presentare una piattaforma di rivendicazioni che metta in discussione la gestione del potere economico, e quindi politico e sociale, in questo paese. Se si formassero i consigli di fabbrica per decidere come organizzare l’attività produttiva, i lavoratori sarebbero direttamente coinvolti nelle decisioni e capirebbero che una gestione collettiva della produzione, svincolata da logiche di profitto, è qualitativamente superiore allo spietato sistema concorrenziale capitalista ma per fare questo hanno bisogno di dirigenti sindacali che vogliano lottare e che li affianchino.
Spesso si sente dire da questi che i lavoratori non sono disponibili a mobilitarsi perché non hanno una prospettiva. Ma come fanno a mobilitarsi quando chi li dirige non avanza mai proposte che siano all’altezza della situazione e invece preferisce vivacchiare di briciole? Sono i dirigenti sindacali quelli che in primis devono dare una prospettiva ai lavoratori altrimenti che dirigenti sono? I lavoratori ed i giovani di questo paese hanno bisogno di un’organizzazione che li rappresenti e che si faccia carico di condurli nella lotta per un’alternativa di classe.
Mirko Sighel
Segretario circolo Vallagarina Partito della Rifondazione comunista