Ora e sempre, resistenza!
Ieri, su proposta del centro sociale Bruno, si è svolta a Piedicastello la prima assemblea pubblica per decidere le iniziative da intraprendere contro l’apertura di una sede a Trento dell’organizzazione Casapound che fa riferimento esplicito all’ideologia ed alle pratiche fasciste.
Il pestaggio del giovane di ieri davanti alla questura di Trento è solo una prima avvisaglia di cosa significa avere Casapound a Trento. Aumenterà il clima di intolleranza e di violenza in città.
L’assemblea ha visto una partecipazione eccezionale (la sala era stracolma) e questo dimostra che a Trento esiste un sentimento antifascista molto diffuso che spesso non trova rappresentanza dentro le organizzazioni tradizionali.
Tanti i giovani che sono stati i protagonisti di un dibattito vero, non formale, su come organizzare una risposta alla provocazione di Casapound. Si perché aprire una sede dove trovano spazio le pratiche della violenza fascista è una vera provocazione che va prima impedita e poi respinta senza se e senza ma.
Una discussione franca e non priva di quelle visioni diverse, che da sempre hanno caratterizzato il movimento antifascista, ma con una condivisione unanime sulla necessità di bloccare l’apertura della sede di Casapound e quindi sulla necessità di una mobilitazione che sappia coinvolgere la città con presidi, volantinaggi e controinformazione.
Noi non possiamo tollerare che un gruppo come Casapound possa diffondere i suoi messaggi di xenofobia, omofobia e di revisionismo storico senza che in città ci sia un moto di ribellione e di protesta.
Quello che ieri mancava non era la volontà di contrastare questo rigurgito fascista ma una presenza attiva della Cgil e dell’ANPI provinciale che a tutt’oggi non hanno preso nessuna posizione rispetto a Casapound. Un limite o una scelta?
Attendiamo l’adesione di queste associazioni alla manifestazione di sabato 9 novembre e a tutte quelle iniziative di contorno che saranno organizzate dai vari movimenti che si oppongono al fascismo.
Inaccettabile è poi la dichiarazione del sindaco Andreatta che tenta di liquidare Casapound come un’associazione culturale, (leggi interrogazione di Rifondazione) forse sarebbe opportuno che desse un occhio al loro sito per un aggiornamento delle sue conoscenze su questa associazione. Nel frattempo mi permetto di ricordare al primo cittadino di Trento, ma non solo a lui, che esiste la Carta Costituzionale il cui Titolo XII è preciso e recita: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.” e la legge n. 645/1952 sanziona “..chiunque pubblicamente esalti esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche.”
Purtroppo, e spero di essere smentito, le Istituzioni anziché essere in prima linea a difesa dei principi sanciti dalla nostra Carta Costituzionale si stanno attivando per stravolgerne i suoi contenuti. (vedi art, 138 Costituzione)
La guerra diventa missione di pace, il diritto al lavoro diventa una concessione del padrone e l’apologia di fascismo diventa espressione culturale.
Per questo dobbiamo resistere: per dire NO a Casapound ma anche per continuare quella lotta in difesa della Costituzione oggi messa in discussione da chi, anziché applicarla, la vuole cambiare per adattarla alle esigenze della nuova finanza mondiale.
Sabato 9 novembre (appuntamento ore 14,00 in piazza Dante a Trento) dobbiamo essere in tanti per dire che il fascismo, vecchio o nuovo che sia, non può avere diritto di cittadinanza a Trento per costruire una manifestazione democratica, includente che sappia parlare non solo contro il fascismo ma anche contro il razzismo, la xenofobia, l’omofobia e l’intolleranza verso il diverso per dire che i principi e i valori della resistenza non sono mai morti e non moriranno mai.
Serve una presa di posizione antifascista, forte e chiara di ogni cittadino/a che vuole essere responsabile del proprio futuro.
Ora e sempre, resistenza!
Ezio Casagranda
Il 12 ottobre,ma sopratutto nei giorni precedenti,vi è stata una grande campagna a livello nazionale per la difesa della costituzione,il titolo era “LA VIA MAESTRA”,che dopo un battage pubblicitario non indifferente su media e via etere ha visto il suo apice nella manifestazione pubblica,appunto del 12 ottobre a Roma.In quei giorni tutto il “sapere di sinistra”si sperticava nel decantare la bonta,l’attualità e la assoluta e inevitabile imprescindibilità dell’argomento!Personalmente ho sempre pensato che aldilà della bontà della proposta non possa che corrispondere al “minimo sindacale”,che il “vulnus” stia nell’applicazione della Costituzione stessa,di conseguenza il tema è un altro che senso ha al giorno d’oggi,parlare di “…repubblica fondata sul lavoro…”ma di che lavoro stiamo parlando nel momento in cui “al lavoro” è stata tolta ogni dignità,o ancora sulla”retribuzione congrua al benessere mio e della mia famiglia”che senso ha se sappiamo che ci sono lavoratori/ci che lavorano per 400,00euro al mese???Forse tutto ciò meriterebbe una valutazione diversa!?!?
Ma torniamo a noi,ebbene tutti sti difensori,con la “D” maiuscola,della costituzione ieri sera dove erano?L’AMPI,la Fiom, che erano fra i promotori del 12 ottobre, ieri dove erano???
Secondo me è una questione molto più complessa di quanto non sembri; è evidente che nessuno di noi, io per prima, non vuole una sede di casa pound a casa, per la sicurezza della città e perchè non condivido neanche l’ombra del pensiero che sta alla base dell’organizzazione; ma come si impedisce che chi la pensa diversamente parli; e soprattutto è giusto impedirlo? Non bisogna invece tutelare il proprio pensiero e diffonderlo affinché agisca come antidoto verso le altre voci? Domande che mi pongo e ci pongo: perchè è giusto impedire che un gruppo con idee politiche agli antipodi delle mie non possa avere una sede? a parte il fastidio, perchè non dobbiamo lasciare che cpi diffonda le sue idee? perchè non ci piacciono? non so.
Il Titolo XII della Carta Costituzionale è preciso e recita: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.” e la legge n. 645/1952 sanziona “…chiunque pubblicamente esalti esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche.”
La Costituzione vieta esplicitamente queste formazioni che, dobbiamo denunciarlo, sopravvivono perché settori delle istituzioni glielo hanno permesso in nome di una politica falsamente democratica e libertaria.
Per noi democrazia è prima di tutto dare applicazione ai principi della Carta Costituzionale ed è per far rispettare questi ideali che, davanti all’inerzia delle istituzioni, ci sentiamo impegnati a mobilitarci per combattere vecchi e nuovi fascismi e per impedire l’apertura delle loro sedi.
ho posto una semplice domanda di ordine etico
– è giusto azzittire chi dice ciò che non ci va bene? fino a che punto si può vietare una sede a chi non ci piace?-
(perchè seppur inorridendo ho dato un’occhiata al sito di cpa e anche se ci sono ispirazioni e somiglianze, mi pare, a un livello formale, che poi è quello della sua risposta, che non sia così scontato definirlo una riformazione del partito fascista),
ho posto una semplice domanda di ordine etico per accendere un confronto, per PENSARE insieme. e lei mi risponde citandomi un articolo, anzi nascondendosi dietro a un articolo.
è molto bello che la costituzione ci tuteli dal fascismo e così via, ma secondo me, dentro di me, non è sufficiente brandire un articolo per essere convinta di essere nel giusto. Se sono inopportuna mi spiace, magari ho solo scelto il luogo sbagliato per confrontarmi sulla questione.
Lungi da me il nascondersi dietro un articolo, non era sicuramente questo l’intento del mio scritto. Mi scuso e cerco di dare corpo a quello che per il sottoscritto è insito nella Titolo XII della Carta Costituzionale.
La lotta di Resistenza che ha liberto il paese dal fascismo prima e dall’occupazione nazista dopo, ha voluto tutelarci dal ritorno a quelli orrori che loro avevano conosciuto.
Difenderci dalla violenza fascista e nazista ma anche da molti revisionisti (da De felice e ..) fingono di dimenticare, spesso sottovalutano, (non è casuale che Berlusconi abbia definito “Il confino” imposto agli antifascisti “una vacanza gratuita offerta da Mussoliuni”) oppure si nascondono dietro una pacificazione che non c’è mai stata e non potrà mai esserci.
I padri fondatori avevano ben presenti i pericoli che quelli orrori potessero ritornare e quindi hanno scritto che la Costituzione garantiva tutte le libertà tranne quella della ricostruzione del partito fascista o d quanti si ispirano a quella ideologia e alle sue pratiche antidemocratiche.
Tocca noi dare corpo e sostanza ai dettati della Costituzione e quindi non si tratta di “azzittire chi dice ciò che non ci va bene? fino a che punto si può vietare una sede a chi non ci piace?” ma di dare applicazione ai dettati costituzionali, proseguire la lotta di resistenza e bandire definitivamente ogni forma di fascismo dal nostro paese.
Ben venga quindi il confronto ed il dibattito ma, a mio modesto avviso, nel rispetto della Costituzione rivendicandone la sua piena applicazione dal Titolo XII sul fascismo, all’articolo 11 sul rifiuto della guerra come strumento per la risoluzione delle controversie internazionali, dall’articolo 36 sul diritto ad una retribuzione dignitosa dall’articolo 1 per quanto riguarda il lavoro ecc.
Purtroppo oggi la nostra Costituzione non viene applicata e questo deve non solo farci riflettere ma anche stimolarci a scendere in piazza per dire NO al fascismo, NO alla guerra, SI’ all’occupazione. SI’ al reddito di cittadinanza, al diritto alla salute, alla formazione, alla cultura, SI’ ad uno stato sociale efficiente e universale.
Sabato 9 sarò in piazza con questi obiettivi. Spero di vederti per continuare questa discussione.
Ezio Casagranda
Grazie Ezio, detta così è tutta un’altra storia… oggi col corpo non ci sono perchè lavoro, ma con la testa son lì. un abbraccio a tutti
Mi verrebbe da dire “ma di che c…o sta parlando”,ma la franchezza di Virgo impone una risposta che,spero sia un tassello in più per capire la vera portata di questi avvenimenti,che prima di tutto non sono assolutamente casuali,infatti se vai ha scavare un po’ più ha fondo(internet)sulle vere origini e motivazioni ti accorgerai che la facciata è una cosa la SOSTANZA è un’altra.Mi limito ha ricordarti alcuni “fatti della storia” che da soli sono “espliciti”,Hitler e il nazismo,Mussolini e il fascismo Franco e la dittatura in Spagna,Allende e i generali argentini(desaparesidos),la Grecia della dittatura e per finire l’Iraq di fascisti islamici di Ahmadinejad,la storia è tutta lì a dimostrare che questa gente non può portare NIENTE DI BUONO ecco perchè la storia ha la sua importanza!!!
ORA E SEMPRE ANTIFASCISTI!!!
IN MEMORIA DI DUE ANTIFASCISTI
(Gianni Sartori)
Quindici anni fa, quasi nello stesso giorno (rispettivamente 9 e 11 febbraio 2001), se ne andavano due tra i maggiori esponenti dell’antifascismo militante nel Vicentino.
Il Tar, Ferruccio Manea, a 86 anni; Ferrer Visentini a 90 anni.
Quella della morte quasi sincronica non è stata l’unica coincidenza. Le loro vite in qualche modo si erano già incrociate.
Nato a Trieste, Ferrer Visentini (il nome gli era stato in memoria del pedagogista libertario fucilato a Barcellona nel 1909) mi aveva raccontato con partecipazione, direi anche con orgoglio, di aver conosciuto il fratello maggiore del Tar, Ismene Manea, destinato a perire tragicamente nel 1944 per mano dei nazisti. Avevano combattuto fianco a fianco come volontari internazionali in difesa della Repubblica contro i franchisti (fronte di Caspe e battaglia dell’Ebro).
Sia Ferruccio che Ferrer parteciparono attivamente alla Resistenza, ma in seguito i loro destini personali erano stati diversi: il Tar quasi emarginato per il suo “estremismo” (tacciato a volte di “anarchismo”), Visentini rispettato militante del PCI e consigliere comunale dal 1956 al 1970.
Il saluto al Tar lo avevano dato gli antifascisti dell’Alto Vicentino al Circolo Operaio di Magrè di Schio mentre Ferrer Visentini era stato ricordato nella storica Loggia del Capitanio, in piazza dei Signori. Le note dell’Internazionale e di Bella ciao avevano accompagnato l’ultimo viaggio di entrambi.
FERRUCCIO MANEA, nome di battaglia “TAR”
Del comandante della “Brigata Ismene” (citato ripetutamente dal compaesano Luigi Meneghello, sia in “Libera nos a Malo” che in “ I Piccoli Maestri”*) conservo una serie di ricordi personali, un collage di incontri e conversazioni, a volte casuali, altre più approfonditi. E tante immagini fugaci di iniziative a cui entrambi abbiamo partecipato. Sia le manifestazioni organizzate a Schio da Lotta Continua (in particolare quelle contro il golpe cileno) che le riunioni nella sede del Gruppo anarchico operaio (GAO) di Marano Vicentino tra il 1973 e il 1974.
Nel 1974 toccò al Tar tenere l’orazione funebre per il “Borela”, un vecchio antifascista che egli considerava suo maestro. Personalmente avevo potuto incontrare questo anarchico scledense soltanto pochi mesi prima, all’ospizio di Schio dove regolarmente i giovani anarchici dell’Alto Vicentino si recavano a visitarlo. Ricordo che anche l’ultima volta, ormai costretto a letto, si preoccupava di devolvere una parte cospicua della sua esigua pensione a qualche prigioniero politico (in particolare a Giovanni Marini) e a sostegno di Umanità nova, giornale anarchico fondato da Errico Malatesta nel 1920.
Arrivai appena in tempo per raccogliere qualche testimonianza, poi ampliata dallo stesso Tar, sui precedenti libertari in zona: la visita di Pietro Gori (l’autore di”Addio Lugano Bella”) per l’inaugurazione della prima Camera del lavoro nel vicentino di ispirazione anarcosindacalista; le barricate sulla strada che collega Vicenza con Schio per sbarrare il passo ai fascisti messi poi in fuga a pistolettate da un gruppo di Arditi del Popolo (tra cui il Borela); la partenza forzata per l’Australia di una decina di famiglie di noti militanti anarchici dopo che per loro era ormai diventato impossibile trovare lavoro negli stabilimenti della zona.
Il corteo che accompagnò, a piedi, il Borela dalla camera ardente dell’ospizio verso il cimitero era composto, oltre che dai familiari, da una cinquantina di compagni: partigiani delle Brigate Garemi, esponenti dell’ANPI, anarchici da tutta la provincia, qualche militante di Lotta Continua e di lotta comunista. Numerose le bandiere nere (con l’A cerchiata rossa) e quelle rosse e nere (tipo CNT e USI). Sventolava anche una in odor d’eresia: rossa con l’A cerchiata nera. Ferma nella memoria l’espressione intensa del Tar, col volto tirato, direi livido. Conclusa l’orazione funebre per il Borela, nel silenzio totale pronunciava quasi un ordine: “Saluto, compagni!”. E decine di pugni chiusi si alzarono, ecumenicamente, senza distinzioni ideologiche, mentre la bara del vecchio Ardito del popolo scendeva nella terra.
Un altro ricordo, risalente al marzo 1985: il Tar al corteo di Padova indetto per protestare contro l’uccisione a Trieste di un esponente dell’Autonomia padovana (“Pedro” a cui venne poi intitolato uno dei più noti Centri sociali del nord-est). In seguito lo incontrai a Bassano (dove avevo portato una mostra contro l’apartheid, mi pare nel 1987) in occasione dell’incontro-dibattito con un responsabile in esilio del Pan African Congress (PAC, organizzazione dei Neri del Sudafrica, seconda solo a quella di Mandela, l’African National Congress, ANC). Da qualche parte dovrei conservare ancora i negativi delle foto che immortalavano il vecchio combattente antifascista insieme a due esponenti della lotta (anche armata) contro il razzismo istituzionalizzato di Pretoria, non a caso denominato “Quarto Reich”. Una continuità e un passaggio del testimone non soltanto ideali. Lo rividi ancora, sempre nel 1987, ai funerali del partigiano Alberto Sartori “Carlo”. Una scena che non avrebbe sfigurato nella Piazza Rossa, tra decine di bandiere rosse mentre cadeva la neve imbiancando sia la bara che il colbacco del Tar.
In seguito mi ero ripromesso di tornare a intervistarlo, di telefonargli, ma come spesso accade, rinviai la cosa di mese in mese, di anno in anno e non lo rividi più.
Invece nei primi anni settanta capitavo spesso a casa sua (e solitamente senza preavviso, forse anche in modo inopportuno, ma mai che mi abbia mandato a quel paese). Prima a Malo, poi nella casa colonica in aperta campagna dove si era trasferito. Passavo in bici, talvolta in moto, magari dopo un’arrampicata in Pasubio o un’escursione in Val d’Astico, Rio Freddo, Posina. Sempre ospitale, davanti a un bicchiere di rosso, se interpellato il Tar riandava volentieri alle sue avventure partigiane tra gli stessi monti. Del Pasubio mi resta la intensa descrizione di un cruento scontro a fuoco tra il Palon e il Dente austriaco. Ma soprattutto il fatto che Ferruccio, a guerra finita, fosse ritornato decine di volte tra quelle pietraie sfregiate dalle trincee per ritrovare e recuperare i corpi dei compagni caduti.
Altre volte ci avvinceva descrivendo in dettaglio i mille espedienti messi in atto per sopravvivere durante le gelide notti, soprattutto quelle passate in gran parte all’addiaccio durante il primo inverno. Con una tecnica che ricordava il film “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” (Jeremy Johnson) mettevano grosse pietre a riscaldare sul fuoco e poi le seppellivano ricoprendole con uno strato di terra. Si stendevano quindi a dormire e, se il lavoro era stato ben eseguito, potevano sperare di dormire fino al mattino successivo mentre le pietre rilasciavano lentamente il calore accumulato. Accadeva talora che lo strato di terra fosse troppo sottile e in questo caso rischiavano bruciature, ustioni o un principio di combustione degli abiti. Se invece lo strato era troppo spesso, il calore finiva rapidamente e ci si risvegliava indolenziti e tremanti per il freddo nel cuore della notte.
Questo avveniva per esempio in Val d’Assa, destinata a diventare tristemente celebre per l’eccidio di Pedescala e di Forni operato dai nazifascisti nel ’45. Sempre in Val d’Assa (sinistra orografica della Val d’Astico) si svolse un episodio che il Tar ricordava con rabbia. Si trovava in ricognizione con altri due partigiani e si era allontanato da solo per controllare un sentiero quando il silenzio del bosco venne infranto da grida e lamenti. Provenivano dalla radura dove aveva lasciato i compagni. Arrivato sul posto trovò uno dei due agonizzante; rantolando pronunciò le sue ultime parole: “Tar, tradimento!” e indicò la direzione verso cui l’altro (evidentemente una spia, un infiltrato) si era dileguato. Ferruccio si pose all’inseguimento e, ormai allo sbocco della valle, scorse il fuggitivo in lontananza. Forse fu il dolore per il compagno vilmente assassinato, forse il desiderio di vendicarlo (sembra che “Tar”, nome conferitogli da Alberto Sartori, significasse proprio “Vendetta”), fatto sta che nonostante la distanza riuscì a colpire, ma solo con il secondo colpo, l’infame. Dopo questo fatto, temendo di essere stati ormai individuati, il gruppo decise di trasferirsi verso Posina (destra orografica della Val d’Astico). Si accinsero quindi ad attraversare nottetempo la vallata che separa le pendici dell’Altopiano di Asiago da quello di Tonezza, dal Pria forà, dal Summano…Nonostante ogni accorgimento, i loro movimenti non sfuggirono ai numerosi cani presenti nelle contrade tra Cogollo e Arsiero e nella notte si levarono ripetutamente ululati e latrati che avrebbero potuto mettere sull’avviso i fascisti. Riuscirono comunque ad arrivare (“a passo di marcia”) indenni prima dell’alba a Castana e da qui a Posina. Anche se la storiografia non vi ha dedicato molte pagine, si può legittimamente sostenere che in queste valli, per qualche mese, si organizzò una vera e propria Repubblica partigiana, stroncata soltanto dal grande rastrellamento del 1944.
Proprio sopra Posina e Laghi (separate da un rilievo di modeste dimensioni) si erge il Monte Maggio, da cui è ben riconoscibile Malga Zonta dove un folto gruppo di partigiani (tra cui Bruno Viola, il “marinaio”) venne fucilato dai tedeschi dopo che avevano strenuamente combattuto fino all’esaurimento delle munizioni. A Laghi invece è stato recentemente restaurata la lapide, posta vicino ad un capitello, per il partigiano Vitella morto “in difesa del popolo” durante lo stesso rastrellamento; curiosamente la scritta è sia in italiano che in latino. Tutte queste vittime del nazifascismo erano state compagni di lotta del Tar che, anche a distanza di tanti anni, li ricordava con sincera commozione. Ricordava anche, con gratitudine, il cane che gli era stato vicino in tutte le vicissitudini della Resistenza e a cui, diceva, doveva anche la vita per tutte le volte che lo aveva avvisato anticipatamente di un possibile pericolo.
La vita non era mai stata tenera con il Tar, un operaio autodidatta che aveva cominciato a lavorare duramente in tenera età. Fu perseguitato dal fascismo e perse il fratello maggiore, Ismene, in circostanze drammatiche. Ismene Manea, muratore comunista emigrato in Francia, aveva combattuto in Spagna con le Brigate Internazionali fin dal 1936, prima nella formazione “Picelli” e poi nella “Garibaldi”. Venne fatto prigioniero dai franchisti nella battaglia dell’Ebro (settembre 1938) e da questi consegnato alla polizia italiana. Inviato al confino a Ventotene, dopo la caduta del fascismo dall’autunno 1943 partecipò attivamente all’organizzazione del movimento partigiano nel Veneto. Il 6 luglio 1944 venne catturato da un gruppo di ucraini al servizio dei tedeschi.
Torturato in maniera orribile, sarà fucilato il 12 luglio insieme a Giovanni Penazzato. Esistono le immagini, riprese coraggiosamente da un improvvisato operatore nascosto nel palazzo di fronte, del trasferimento dalla Caserma Cella di Schio al luogo dell’esecuzione. Appena saputo della cattura di Ismene, il Tar cercò invano di organizzare una formazione abbastanza numerosa da poter assalire la caserma dove il fratello era rinchiuso. Purtroppo era appena arrivato l’ordine di sganciarsi edi trasferirsi altrove in piccoli gruppi; quindi la maggior parte dei partigiani scledensi si trovava nell’impossibilità di essere allertata. La formazione fu in grado di ricostituirsi soltanto dopo alcuni giorni, troppo tardi per liberare i prigionieri. Successivamente la Brigata del Tar venne denominata “Brigata Ismene”. A questo dolore si aggiunse, proprio nei giorni della Liberazione, la morte prematura del figlio. Un solo rimpianto: non aver preso il mitra per procurarsi, armi alla mano, le indispensabili medicine dove si trovavano in abbondanza, nell’infermeria dell’esercito statunitense a cui si era rivolto invano.**
Nonostante tutte queste amarezze, negli anni successivi il Tar fu sempre lucidamente a fianco dei movimenti di lotta e contestazione, stimato e amato da varie e successive generazioni di giovani antagonisti.
Lo ricordano ancora tutti coloro che in momenti e con metodi diversi hanno lottato contro lo “stato di cose presente” (e magari anche futuro): dalla Resistenza al ’68, dalla “breve estate dell’Autonomia” ai Centri sociali…E lo ricordano con le immagini fortunosamente riprese durante la “battaglia di Schio”, mentre corre attraverso una faggeta, piegato in avanti, colbacco ben calcato, pistola nella destra e arma automatica a tracolla…all’assalto del cielo.
Gianni Sartori
* nota: “…c’è una società da smontare, pensavo, e forse questa è la volta buona…La società non è stata smontata, però: dopo la guerra l’uomo col berretto di pelo tornò in prigione, e io dico che è una bella vergogna.”
(Luigi Meneghello, I Piccoli Maestri)
**nota:
“…ah la liberazione: fu un giorno tremendo. Non potendo comprare la penicellina mio figlio l’ho visto morire mentre chi aveva il denaro quelli hanno sopravvissuto, mentre mio figlio è venuto a morire, il mio primo figlio, che aveva già sofferto scappando qua e là. Mai potrò perdonare questa infame società…io, ero pieno di miseria tanto, è vero che quando è morto mio figlio alla liberazione non avevo neanche diocan quelle 20 mila lire da prendere la penicellina che veniva venduta al mercato nero, così chi che gavea denaro, i figli dei ricchi oppure anche i vecchi che oramai avevano fatto una esistenza, avevano la possibilità di prendere la peniccellina e hanno protratto, la loro vita ancora per altri mesi o qualche anno, mio figlio invece che era nel fiore della vita perché non avevo una manciata di vile denaro da comprare questa penicellina, mi è morto proprio alla liberazione, subito dopo la liberazione quando tutti inneggiavano alla libertà ed erano tutti felici, alla vittoria insomma, io purtroppo ho conosciuto una delle più grandi amarezze, per non avere questo denaro per comprare la penicellina. Così voglio dire che non perdonerò mai a questa società diocan ”
(dai ricordi del Tar registrati da A. Galeotto)
“Purtroppo solo la somministrazione di penicillina, venduta allora al mercato nero avrebbe potuto strapparlo alla morte…ma noi non disponevamo di tanto denaro. E pensare che appena una decina di giorni prima mio marito, che aveva nomea di “ladro di galline”, alla testa di un reparto della Brigata da lui comandata aveva ritrovato a Longa di Schiavon ciò che molti cercavano in quelle ore: il tesoro della sinagoga di Firenze trafugato dai nazisti in ritirata. Si trattava di una quarantina di casse ricolme di opere d’arte di inestimabile valore, che mio marito avrebbe potuto dichiarare “preda bellica” ma che preferì invece restituire immediatamente alla comunità ebraica”.
(Alessia Giustina, moglie del Tar)
FERRER VISENTINI, in Spagna per la Libertà
(Gianni Sartori)
Ferrer Visentini era nato a Trieste nel 1910. Il padre Ulderico, un calzolaio prima socialista e poi tra i fondatori del Partito comunista a Trieste, venne assassinato dai fascisti nel 1922. Gli aveva dato questo nome in memoria di Francisco Ferrer i Guardia, famoso pedagogista anarchico catalano fucilato l’anno prima, il 13 ottobre 1909 a Barcellona. Nativo di Trieste si considerava ormai pienamente vicentino avendo vissuto nella nostra città per molti anni in qualità di membro dirigente del P.C.I. prima e del P.D.S. poi.
In anni ormai lontani lo avevo intravisto nell’antica sede comunista vicentina (anche insieme a Sartori Antonio, altro operaio comunista volontario in Spagna) e poi meglio conosciuto alla presentazione di una sua preziosa pubblicazione sui volontari vicentini nella Guerra civile spagnola (“In Spagna per la libertà” Ed. ANPI Prov. di Vicenza). Fu in quella occasione che parlammo di Ismene Manea la cui foto segnaletica è riprodotta a pagina 48.
Tra i partecipanti, il poeta Fernando Bandini, autore della prefazione, Eugenio Magri, giovanissimo gappista durante la Resistenza, Gino Morellato che dopo aver combattuto nelle Brigate internazionali partecipò alla Resistenza francese raggiungendo il grado di capitano dei F.T.P. (Francs-tireurs et partisans, il movimento di resistenza interna francese creato ancora nel 1941 dal Parti communiste francais, PCF)
Lo rincontrai un paio di volte verso la metà degli anni novanta riportandone questa intervista. Troppo breve per riassumere in modo esauriente una vita tanto avventurosa, ma forse in grado di delineare la personalità di un “rivoluzionario di professione” del secolo scorso.
D. Innanzitutto qualche cenno biografico…
F.V. Provengo da una famiglia di socialisti, mio padre, un calzolaio con la terza elementare, fu uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia a Trieste. Mi chiamò Ferrer per un motivo ben preciso, un mio fratello fu chiamato Darwin, un altro Giordano Bruno…Nel 1926 mi iscrissi alla gioventù comunista cominciando molto presto a svolgere attività clandestina. Diffondevo materiale propagandistico in città e nei cantieri navali. Nell’ottobre del 1930 venni chiamato dalla direzione nazionale giovanile a dirigere l’attività clandestina in Lombardia. Per questo sfuggi all’arresto al momento della caduta dell’organizzazione giovanile a Trieste e, sempre nel ’30, venni inserito tra i latitanti ricercati dalla polizia politica. A Milano, con documenti falsi, resistetti pochi mesi. Venni arrestato il 21 gennaio 1931 in seguito a una retata a Sesto San Giovanni.
D. Cosa è poi successo? Il carcere, il confino…?
Il carcere di sicuro. Sono stato processato dal Tribunale speciale e condannato a nove anni di reclusione per ricostituzione del partito Comunista. Fui inviato prima a Lucca, dove rimasi dal ’31 all’estate del ’33 e poi a Civitavecchia, dove vennero concentrati i politici. Venni amnistiato nell’ottobre del ’34 per la nascita del figlio del Re.
Ritornai a Trieste mesi in libertà vigilata e nel maggio ’35 scappai riprendendo l’attività clandestina. Ma mi andò male, venni ripreso e inviato al confino per due anni, dal ’35 al ’37, a Ponza. Il 24 maggio 1937 espatriai clandestinamente con un passaporto falso fornitomi dal partito e arrivai a Parigi il 27 maggio. Un ricordo direi sconvolgente risale all’ultima domenica di maggio quando partecipai alla grande manifestazione in memoria dei trentamila comunardi trucidati nel maggio 1871. Un milione di persone percorse i boulevards inneggiando alla memoria della Comune e in difesa della Repubblica spagnola. A Parigi collaborai con Ruggero Grieco (segretario del partito comunista) alla redazione di “Lo Stato Operaio”.
Io avrei voluto andare subito in Spagna dove era già in corso lo scontro armato tra i repubblicani e i franchisti, ma il partito non era d’accordo. Raggiunsi ugualmente la Spagna nel dicembre 1937 con Giuseppe Boretti che avevo conosciuto a Ponza e che era riuscito a fuggire dalla compagnia militare di disciplina di stanza a Ponza, riparando a Parigi. Questo compagno morì durante la battaglia dell’Ebro. Dopo un periodo di addestramento militare che mi fu molto utile poiché non avevo fatto il soldato in Italia, a Quintenar de la Republica, venni assegnato al IV Battaglione della Brigata Garibaldi. Qui svolsi mansioni di responsabilità del partito.
D. Quel periodo segnò il ripiegamento dei repubblicani…
F.V. I franchisti, grazie al consistente aiuto di fascisti e nazisti, erano all’offensiva su tutti i fronti. Ruppero il fronte a Caspe e avanzarono fino al mare, tagliando in due parti il territorio della Repubblica. Il nostro comando dispose il trasporto immediato verso la Catalogna di tutti gli organici dei centri di addestramento delle formazioni internazionali che si trovavano nella provincia di Albacete. Ci ricongiungemmo con le rispettive unità militari ed assieme ad altre unità spagnole prendemmo posizione lungo l’Ebro. La situazione era molto grave: l’esercito repubblicano era diviso in due tronconi. Inoltre eravamo nettamente inferiori nell’aviazione, nell’artiglieria pesante e leggera e nei carri armati; potevamo competere solo nell’armamento leggero. Fu una battaglia durissima. Noi della Brigata Garibaldi entrammo in azione il 3 settembre, prendendo posizione sulla Sierra Caballs* dove rimanemmo fino al 24 settembre. Furono 24 giorni di duri e continui combattimenti con gravissime perdite che raggiunsero l’ottanta per cento degli effettivi. Complessivamente la battaglia dell’Ebro durò tre mesi e mezzo, dal 25 luglio al 16 novembre con perdite complessive, calcolando entrambi gli schieramenti, di oltre 250mila tra morti, dispersi e feriti.
D. E dopo la Spagna, l’Italia?
F.V. Non subito ovviamente. Nel dicembre del ’38 con Italo Nicoletto rientrai in Francia. A Parigi continuai a lavorare nell’organizzazione dei volontari antifascisti di Spagna e collaborai al quotidiano “Voce degli Italiani”. Ma lo scoppio della guerra e l’invasione del territorio francese da parte dei tedeschi mi costrinsero a rientrare nella clandestinità. Svolsi il mio lavoro politico tra i migranti con il PCF**. Nel giugno del 1941 venni arrestato dalla Gestapo e inviato al campo di sterminio “KZ” delle SS a Compiegna dove rimasi fino all’agosto del ’44. Con l’avanzata alleata. Durante il trasferimento degli internati in Germania, riuscimmo a evadere con l’aiuto dei partigiani francesi. Dei quattromila che eravamo solo trecento erano riusciti a sopravvivere. Rientrai poi in Italia giusto in tempo per partecipare alla fase finale della lotta di liberazione a Torino. In seguito la vita e gli incarichi mi portarono stabilmente a Vicenza
Gianni Sartori
* nota: Sierra Caballs e Pandols, una catena collinare, costituirono quel “fronte di Gandesa” ricordato in una versione della famosa canzone repubblicana:
Si me quieres escribir
ya sabes mi paradero:
en el frente de Gandesa,
primera línea de fuego
** nota: da ricerche successive penso di poter affermare che Visentini ebbe modo di collaborare con il MOI (Main-d’oeuvre immigrée, organizzazione sindacale dei lavoratori immigrati della CGTU – Confédération gènéral du travail unitaire) che aveva attivamente sostenuto la Repubblica spagnola (anche con la partecipazione di suoi membri alle Brigate Intenazionali) e forse anche con il primo FTP-MOI (Francs-tireurs et partisans-Main-d’oeuvre immigrée) sorto nel 1941.
Del FTP-MOI è nota la vicenda dell’Affiche rouge, un manifesto stampato dai nazisti nel 1943 con le foto di 23 membri del FTP-MOI poi fucilati. Il gruppo era quello guidato dal poeta armeno Missak Manouchian. I nazisti cercavano, peraltro invano, di alimentare l’ostilità dei francesi nei confronti della Resistenza mostrando come a questa partecipassero molti stranieri immigrati (italiani, spagnoli, armeni…) e molti ebrei.
ALPAGO RESISTENTE
(Gianni Sartori)
Dalla chiesa di Montanès (provincia di Belluno), dedicata a San Martino, si domina il Lago di Santa Croce. Lo sguardo si spinge dal Cansiglio al Col Visentin e alle dolomitiche pareti della Schiara.
In lontananza si distinguono il Grappa e l’Altopiano di Asiago dove “Piccoli maestri” partigiani scrissero altre pagine significative.
Tra il ’43 e il ’45 molte furono le vicende di questa conca verde circondata dalle cime suggestive di Col Nudo, Teverone, Crep Nudo, Antander, Messer…
Su alcuni episodi della Resistenza in Alpago ero stato informato dal compianto Luigi De Min di Lamosano, comandante di un battaglione della Brigata Fratelli Bandiera, nome di battaglia “Squalo” per il servizio militare svolto in Marina, nei sommergibili.
Altre notizie le avevo poi avute da Nino De Marchi (il comandante “Rolando”), autore del libro “Memorie 1943-1945”.
Per saperne di più avevo poi incontrato Carlo Barattin, classe 1925, di Montanès.
“Nel 1943 –mi spiegava- anche noi dell’Alpago siamo stati annessi alla “Grande Germania” del Reich, come l’intera provincia di Belluno insieme a quelle di Bolzano, di Trento e al Friuli Venezia Giulia. Era il territorio dell’Alpenvorland, governato direttamente dai tedeschi”.
Proprio riferendosi a questo evento Nino de Marchi affermava che “la nostra lotta fu, senza dubbio, guerra di liberazione ed anche di indipendenza”.
Racconta Carlo Barattin: “Personalmente ero già stato alla visita di leva italiana, ma nel novembre ’43 venni richiamato dai tedeschi. A Montanès eravamo in 8 del ’25 e in un primo momento non ci presentammo. Poi, minacciati dal Podestà (sosteneva che in tutto l’Alpago solo noi non ci eravamo presentati), andammo a Puos per la visita. Ripensandoci è stato un errore. Da quel momento avevano nomi e cognomi precisi di ogni renitente e se ti prendevano eri spacciato”.
La cartolina arrivò dopo quindici giorni e “noi abbiamo preso la corriera verso Ponte nelle Alpi. D’accordo con l’autista siamo scesi in una zona disabitata e per due mesi siamo rimasti nascosti nei boschi”.
A questo punto il gruppo di renitenti decise di integrarsi nella Resistenza, alcuni in Cansiglio, altri in Alpago. Qui operava la Brigata Fratelli Bandiera comandata da Nino De Marchi, ex ufficiale di Artiglieria Alpina. In seguito De Marchi doveva diventare il comandante della Brigata Nino Bixio. Nella piana del Cansiglio si era insediato il Comando di Divisione Nino Nanetti (dedicata ad un esponente delle Brigate Internazionali caduto, con il grado di generale, sul fronte basco al comando di una divisione dell’Esercito popolare) che comprendeva le brigate del Gruppo Vittorio Veneto: Cairoli, Fratelli Bandiera, Bixio (con i battaglioni Manara, Nievo e Manin) oltre alle brigate Mazzini, Tollot e Piave.
“Ad un certo punto –continua Carlo Barattin- ci siano spostati a Pian Cajada, sopra Longarone e Fortogna, dietro il monte Serva. Poi siamo andati alle casere Stabali, sotto al Monte Dolada e al Col Mat, verso Venal di Montanes. Con noi c’era anche il comando del CLN. Ricordo che con Giorgio Betiol e Attilio Tissi dovevamo fare la guardia ad un gruppo di tedeschi. Grazie al parroco di Padola, don Weiss, organizzammo uno scambio di prigionieri alle “paludi”, vicino al canale sotto Tignes. Noi abbiamo consegnato otto tedeschi e contemporaneamente, in base all’accordo, a Bolzano venivano liberati alcuni prigionieri dal campo di concentramento”.
Naturalmente nel gruppo dei giovani partigiani “c’era un po’ di paura. Noi eravamo in quattro (più il parroco) con otto prigionieri. Di fronte, in mezzo alla strada, c’era un maresciallo tedesco con quattro soldati”. Carlo ricorda che in quel periodo vennero attaccati il presidio di Puos, quello di Bastia e di Santa Croce. Una volta un attacco è fallito perché “dovevamo attraversare un ghiaione e il rumore dei sassi che cadevano ha messo in allarme i nemici che hanno cominciato a sparare”.
Un evento particolare nella storia dell’Alpago è rappresentato dall’arrivo del maggiore Harold William Tilman. Del mitico comandante della missione alleata Beriwind, conosciuta come Simia, mi avevano parlato sia Luigi De Min che Nino De Marchi.
Nato nel 1898, Tilman,noto alpinista-esploratore con esperienze himalaiane, viene ricordato per la prima ascensione del Nanda Devi nel 1936, all’epoca la più alta vetta mai raggiunta. Al suo attivo scalate sui monti Kenya, Ruwenzori. Kilimanjaro e in Patagonia, oltre a tre tentativi sull’Everest.
In Alpago e Cansiglio Tilman manteneva i collegamenti con le truppe sbarcate nel sud d’Italia e garantiva la possibilità di ricevere rifornimenti paracadutati dagli aerei.
Carlo fece parte del gruppo incaricato di incontrare Tilman (arrivato a piedi dall’Altopiano di Asiago dove era stato paracadutato pochi giorni prima) e di portarlo in Alpago.
“Siamo andati a prenderlo sul Piave, nella zona tra Castion e Sagrogna, nel maggio del 1944, di notte. Durante il ritorno, eravamo appena arrivati a Puos e ci eravamo fermati per riposare, è iniziato l’attacco di un altro gruppo di partigiani al presidio. Naturalmente siamo ripartiti immediatamente”.
Tilman rimase a lungo con il gruppo di Carlo esplorando le vette circostanti. In particolare “cercava un passaggio da utilizzare per sfuggire ai rastrellamenti raggiungendo Cimolais e la valle del torrente Cellina (in Friuli) attraverso i monti”. Spesso queste esplorazioni si concludevano in piena notte. Del maggiore ricorda anche che “in pieno inverno scendeva dal Col Nudo (quota 2471) e per lavarsi si tuffava nell’acqua gelida”.
Tilman “riceveva e trasmetteva in codice, senza che neppure il marconista, un toscano, potesse comprendere. L’interprete era un tenente di artiglieria di Trento”.
Ai partigiani era affidato il compito di recuperare i piloti inglesi e americani colpiti dai tedeschi. Racconta che “ne avevamo sempre una dozzina nascosti. Una volta in Cansiglio cadde una fortezza volante; tre piloti morirono, ma altri tre sopravvissero. Tra questi c’era un capitano di nome Tom”. A Montanès si ricordano anche di un certo “Tech”. Rimasero tutti nascosti per mesi nelle casere sopra il paese.
“Un altro pilota –prosegue Carlo- lo abbiamo recuperato in Fadalto, vicino al Lago di Santa Croce. La vita non era facile. C’era poco da mangiare e non era semplice procurarsi del cibo”.
Inizialmente i paracadute venivano bruciati “poi li usammo per fare delle camicie”.
Ogni tanto “i piloti sparivano. Tilman trovava il modo di mandarli verso Venezia, verso Trieste, verso il mare…dove venivano recuperati”. E’ significativo che dopo la guerra alcune famiglie di Montanès abbiano avuto un riconoscimento benemerito dalla RAF.
Bisognava inoltre recuperare il materiale paracadutato dagli aerei. I “lanci” avvenivano soprattutto in Cansiglio e Pian Cavallo, dove era facile nascondere le armi e i viveri nelle numerose cavità naturali.
Luigi De Min mi aveva raccontato di quando con Tilman aveva risalito il Venal di Montanès fino al Passo di Valbona, tra il Col Nudo e la Cima della Pala del Castello per poi inoltrarsi lungo il sentiero impervio delle Landres Negres, già nel Friuli. Al ritorno il maggiore si levò il giubbotto e con quello scese per il ripido pendio ricoperto di neve “come se fosse sopra ad uno slittino”.
Ma anche i tedeschi erano alla ricerca del passaggio.“Una volta –racconta il nostro interlocutore-prelevarono alcune persone a Montanès tentando di raggiungere il Passo di Valbona con i muli”. Sembra che siano riusciti ad “arrivare fino a Claut, forse a Barcis. Uno dei sequestrati è riuscito a scappare: gli altri due poi sono stati rilasciati…era solo un giro di esplorazione”.
Ben più grave quella che accadde durante un rastrellamento quando “i tedeschi arrivarono da Farra, mentre il nostro gruppo si trovava a Col Indes (sopra Tambre). Il primo morto lo hanno fatto a Sant’Anna dove allora c’era soltanto la malga”. Era l’epoca dei grandi rastrellamenti che colpirono anche sulle montagne vicentine: dalla valle di Posina (in agosto, Malga Zonta), all’Altopiano (ne parla Meneghello in “Piccoli maestri”), al Grappa. Poi, in settembre, toccò al Cansiglio e all’Alpago. Durante il rastrellamento del settembre 1944 i tedeschi “hanno ucciso anche alcuni malgari in Val Salatis, la valle che risale verso il Monte Cavallo. A Spert i partigiani catturati e uccisi sono stati appesi ai ganci, esposti come in una macelleria”.
Carlo ricorda con commozione anche un’altra vittima dei nazifascismi, il “Comandante Zero”, originario da Soccher, del battaglione Piave. Era stato fatto prigioniero e avrebbe dovuto portare i soldati in Venal di Montanès, alle casere Stabali dove erano nascosti i partigiani e il comando del CLN. Finse di sbagliar strada portandoli in Venal di Funès, sull’altro versante del Teverone. Naturalmente “quando si resero conto di essere stati ingannati i tedeschi lo ammazzarono. Il corpo del comandante Zero venne ritrovato nei boschi da Tilman, vicino alla Crosetta. Noi pensavamo che dopo la cattura fosse stato deportato. Con il suo sacrificio –sottolinea – ha salvato una cinquantina di persone, tutte quelle che in quel momento si trovavano a Stabali”.
E prosegue ricordando che “nel gennaio del 1945 da Tambre vennero deportate una cinquantina di persone, in maggioranza renitenti. Alcuni finirono a Mathausen e solo tre o quattro ritornarono a casa. Uno in particolare ritornò distrutto psicologicamente. Nel campo di concentramento era stato costretto a bruciare i cadaveri dei suoi compagni”.
Il 20 febbraio alla casera di Montanès venne ucciso Vittorio Barattin (nome di battaglia Faè) un partigiano amico e coetaneo di Carlo. L’episodio è stato raccontato anche da Nino De Marchi. In quel momento il comandante partigiano si trovava proprio a Montanes dove era stato mandato per riorganizzare la sua vecchia brigata, la “Fratelli Bandiera”.
“Quel giorno a Montanès i tedeschi avevano rinchiuso nelle stalle una trentina di civili che sicuramente sarebbero stati uccisi per rappresaglia se ci fosse stato uno scontro a fuoco, se Nino avesse tentato di sganciarsi combattendo”. Invece il “comandante Rolando”, rischiando di essere catturato, riuscì a restare nascosto durante il rastrellamento e le perquisizioni. Alla fine i tedeschi se ne andarono senza distruggere il paese.
Lorenzo Barattin, anche lui del ’25, ricorda che “la sera prima avevo dormito nella casera di Montanès con mio fratello e con Vittorio , ma per ben tre volte avevo fatto un sogno angoscioso. Entrava nella casera un cacciatore e si metteva a dormire vicino a noi. Sempre lo stesso sogno per tre volte. Ne parlai con mio fratello e decidemmo di traslocare”. Invece Vittorio aveva incontrato in paese alcuni partigiani e rimase con loro nella casera. “Morì –racconta-per una pallottola che entrò dalla spalla e forò il polmone”.
Finita la guerra, nonostante avessero partecipato alla Resistenza (“pagando il prezzo del biglietto di ritorno alla democrazia”) Carlo, Lorenzo e altri partigiani dell’Alpago furono obbligati a fare anche il militare. Poi se ne andarono a lavorare in Svizzera, in Francia o in Belgio.
Quanto a Tilman, l’ultima immagine che Carlo conserva è quella del maggiore mentre sale su una jeep americana a “la Secca”, sulla strada che collega Vittorio Veneto a Ponte nelle Alpi. La sua vita avventurosa si concluse nel 1977 quando, navigando verso le isole Falkland, scomparve misteriosamente nell’Oceano Atlantico.
Gianni Sartori