TAV: niente scavi e materiale radioattivo

di Maurizio Bongioanni su ‘L’infiltrato’. – 
Quando si parla di Tav Torino-Lione la prima domanda che viene da porsi è: a che punto siamo? Come sappiamo, c’è un versante francese e uno italiano di cui tenere conto. Da quello francese, la parte progettuale che concerne lo scavo di tre gallerie esplorative (che in gergo tecnico si dicono “discenderie” o “geognostiche”) sono già state portate a termine contro il parere degli ambientalisti. La lunghezza di questi tre piccoli tunnel messi assieme equivale a quella del tunnel italiano che si sta tentando di realizzare a Chiomonte, in Val di Susa.

LA FRANCIA? C’EST FINI, L’ARGENT – Qualcuno potrebbe legittimamente chiedersi se la Francia stia aspettando che l’Italia realizzi il suo tunnel. Ma la risposta è di una semplicità disarmante: «No» dichiara Claudio Giorno, attivista e fondatore del Comitato Habitat (antesignano dei NoTav). «La Francia non va da nessuna parte perché sostanzialmente mancano i fondi. Decisivo sarà il riscontro dell’Unione Europea se deciderà di concedere il 50% dei finanziamenti per la fase progettuale e il 40% sui lavori veri e propri».
Intanto che i governi italiano e quello francese ricerchino il denaro sufficiente per portare a termine il progetto, questo è già stato modificato: «Torino e Lione – continua Giorno – sono diventati due capolinea di una linea a sé, non più inserita in un contesto transeuropeo, come era stato concepito alla nascita. Attualmente il progetto prevede 57 km di tratta, compreso il traforo di valico tra Susa-Bussoleno e Saint-Jean de Maurienne. Un ridimensionamento sostanziale rispetto all’idea di una linea ad alta velocità in grado di trasportare merci dal Portogallo all’Ucraina». La ragione per la quale si è arrivati a tanto è la medesima in tutte le nazioni coinvolte dal mega-progetto: la mancanza di fondi.
LA FARSA MEDIATICA DEI LAVORI IN CORSO – Passiamo al versante italiano. Parlare di “cantiere” è appropriato anche se più che assistere a un luogo in cui sono in corso dei lavori pare di essere davanti a una farsa mediatica. Il contestatissimo progetto consiste per ora in un cantiere aperto e militarizzato, una zona barricata da reti e filo spinato, dove è stata posizionata la prima “talpa”, lo scavatore che si occuperà di forare il terreno e dar via al tunnel esplorativo. A differenza di quanto erroneamente riportato dai principali mezzi d’informazione, al momento a Chiomonte non sono in atto scavi propriamente detti ma solo attività di consolidamento del terreno dal momento che il futuro scavo interesserà l’area su cui poggiano i pilastri portanti dell’attuale viadotto autostradale. Successivamente a tale compattamento, i progettisti prevedono di forare la parete della montagna con tecniche classiche, mediante esplosivo, per realizzare un primo foro di 500 metri di lunghezza in cui posizionare la talpa e proseguire con lo scavo vero e proprio. Ma ancora non è dato sapere quale sarà la lunghezza complessiva dal tunnel in questione: si parla di 10 chilometri, ma la misura è suscettibile di variazioni a lavori in corso.
IL RISCHIO FRANA SUGLI OPERAI – Da che cosa dipende questa variazione? Dal tipo di roccia, se asciutta o ricca d’acqua. Per ora i costi di realizzazione sono stati calcolati dai progettisti sulla base di scavi in presenza di roccia asciutta.
Ma basterebbe chiedere a un qualunque cittadino della valle per scoprire che le previsioni saranno facilmente disattese. Lo scavo del tunnel geognostico ha una sua logica coerente perché aiuterebbe a capire se l’opera è fattibile o meno, cioè diventa funzionale all’analisi dei costi e dei benefici. Ma pare che questa analisi, per la Valsusa, sia già stata fatta sulla carta ancora prima di sondare il terreno: «Le cifre sui costi che ci vengono propinate» riprende Claudio Giorno «riguardano i lavori in presenza di roccia asciutta, ma i valsusini, studiosi e cittadini, sanno che la roccia è in gran parte ricca d’acqua». Questo significherebbe, una volta iniziati i lavori, rinforzare metro per metro lo scavo perché la roccia non frani sugli operai al lavoro e canalizzare l’acqua in eccesso. «L’oscillazione del costo tra uno scavo con roccia asciutta e uno con roccia fradicia decreta la fattibilità o il fallimento dell’opera stessa» conclude.
Un aspetto da non sottovalutare. Lo sanno bene quelle ditte norvegesi che nel 1993 scavarono la roccia del massiccio di Point Ventoux al fine di costruire le gallerie esplorative della centrale idroelettrica Iride: in quel caso ci rimisero una talpa, abbandonata nella roccia, e un’altra ne tirarono fuori solamente che qualche pezzo, e il costo complessivo lievitò di parecchio. Senza parlare dei danni ambientali dovuti al prosciugamento di diverse falde acquifere (peraltro già successo per il Tav di Firenze e Bologna).
LA VALLE RADIOATTIVA – Ma i rischi non finiscono qui. Già dal 1980 si registrano nella valle impulsi radioattivi dovuti alla presenza di uranio (di cui se n’è già parlato molto) e di torio (che pochi conoscono). Il torio, se polverizzato, produce gas radon radioattivo e per questo necessita di essere maneggiato con molta cautela. Cautela che difficilmente si manterrà durante gli scavi. Secondo gli studi, l’esposizione a questo elemento chimico può portare a un aumento del rischio di cancro ai polmoni, al pancreas, ai reni e al sangue. Vero è che le persone sono sempre esposte a piccole quantità di torio attraverso l’aria e il cibo, perché esso è ovunque sulla terra. Ma scavi come quelli ipotizzati nella Val Susa libererebbero un polverone incontrollabile mettendo a rischio la salute dei lavoratori del cantiere e dei valligiani, come ha sostenuto durante uno dei suoi interventi il dottor Gays, oncologo del S. Luigi di Torino: “Se si scava, il rischio è enorme”. Per Gays si andrebbe incontro a qualcosa di peggio del Vajont: “i morti saranno molti di più, ma saranno morti silenziosi, diluiti in decine di anni. E saranno nella stragrande maggioranza morti nostrani”.

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